di Padre Pino Piva

Non so se Gesù può essere definito il primo femminista (maschio) della storia… ma certo non si può negare che “femminista” lo sia; almeno per come oggi si intende comunemente, credo. Io sono un uomo, cisgender, e quindi non so quanto titolato per parlare di questi temi; però credo di essere sufficientemente convinto che la differenza è quel valore necessario perché anche l’uguaglianza continui ad esserlo, un valore; e viceversa. Mi colpisce come il Gesù dei Vangeli si ostini a guardare la realtà e le persone a partire dallo sguardo dei diversi, coloro che divergono rispetto al modo ufficiale di raccontare la realtà (anche se probabilmente sono la maggioranza). Gesù infatti non riesce a farsi capire da uno dei capi dei giudei, Nicodemo, quando parla di acqua e spirito, e di rinascere (Gv 3). Al capitolo successivo, invece, il punto di esistenza divergente della samaritana permette a lei di comprendere e sperimentare immediatamente la rinascita dall’acqua (viva) e dallo spirito («Dio è spirito»), così da poter «adorare». Una situazione, questa di lei, che oggi definiremmo intersezionale perché raccoglie in sé molteplici motivi di diversità che le causano discriminazione: è donna, e per questo era ritenuta inferiore ad un uomo (e invece Gesù chiamerà anche delle donne nel suo gruppo di discepoli [Lc 8]); è samaritana, e per questo era disprezzata dai giudei (Gesù invece indicherà un samaritano come esempio di chi compie davvero la legge giudaica [Lc 10]); vive una situazione coniugale irregolare, e per questo era ritenuta esclusa dalla relazione con Dio (Gesù invece indica i gesti della donna “peccatrice”, come adeguati per poter spiegare al fariseo Simone l’amore di Dio [Lc 7]). Davvero Gesù ha uno sguardo diverso, più compatibile con chi vive la diversità (oggi si direbbe uno sguardo queer): si è chinato per terra, dov’era la donna adultera, per spiegare ai giudei pronti ad ucciderla che la legge di Dio è per la vita e non per la morte; ha parlato a partire dal punto di vista di lei (Gv 8). Gesù guarda la realtà come la vedova al tempio, che nei due spiccioli intravede un valore immensamente più grande rispetto alle ingenti elemosine dei facoltosi (Mc 12). O come lo sguardo della donna di Betania (Mc 14 e paralleli), che nel suo gesto di spezzare il vasetto di nardo prezioso intende esprimere un amore fino alla fine, mentre invece altri vi vedono solo un inutile spreco. Uno sguardo, quello di Gesù, veramente divergente rispetto allo stereotipo maschile, competitivo e superficiale – spesso venale – che rischia di far perdere l’essenza del Vangelo, il primato della grazia.
Mi sembra molto significativo notare, inoltre, come Gesù smascheri la mentalità patriarcale che sta alla base della concessione mosaica del ripudio. In Mt 19, 3-10 Gesù rivendica l’indissolubilità dell’amore coniugale come amore tra due “persone” a “immagine e somiglianza di Dio” che, quindi, amano con un amore a immagine dell’amore di Dio: eterno. L’accento di Gesù insiste sulla medesima dignità tra uomo e donna; infatti, rispondendo ai farisei che gli chiedevano di prendere posizione sui motivi del ripudio della donna da parte dell’uomo (le scuole di Hillel e Shammai), Gesù bypassa la questione farisaica dei “motivi” e nega, piuttosto, la stessa possibilità del ripudio. Infatti, questa possibilità riservata all’uomo ratificava l’inferiorità di natura della donna; per questo il marito poteva sostituirla come un qualsiasi animale domestico difettoso. Gesù invece risponde: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina (…) i due diventeranno una sola carne?». Quindi, l’essere umano creato da Dio non è solo il maschio (da qui il presunto potere sulla donna concesso da Mosè), ma maschio e femmina! Gesù qui pone chiaramente una questione di genere, di parità di genere, di cui l’indissolubilità del matrimonio (unione di due “persone” immagine di Dio) è garanzia. Prova di questo è la reazione dei discepoli (maschi) che gli rispondono: «se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi»: hanno capito bene la posizione femminista di Gesù!
Dà tristezza, allora, constatare l’opera culturale normalizzatrice operata successivamente nella comunità cristiana fino ad oggi, quando ripetendo l’espressione di Gesù «il Creatore da principio li fece maschio e femmina» si tralascia la questione di parità, per insistere solo sulla differenza rendendola sostanziale, prescrittiva, strutturante la realtà e la società (direbbe Andrea Grillo che la società dell’onore, prevale e prevarica l’affermazione di pari dignità, su cui invece insiste il Vangelo). Ed ecco che allora si sono moltiplicati gli stereotipi di genere che vedono identificare il maschile con una presunta superiorità di natura, con la mente, la ragione, la cultura, il sacro, la forza e il dominio legittimo; mentre il femminile prescriveva la sottomissione, la debolezza, l’emozione, l’irrazionale, il corpo, la tentazione, il profano.
Per non parlare dell’idea che anche il binarismo maschio-femmina sia prescrittivo della normalità antropologica, relegando i vissuti non-eterosessuali e non-cisgender nell’ambito della patologia, della perversione e del disordine morale. Quando si separa il valore della differenza da quello dell’uguaglianza e della pari dignità, la differenza diventa motivo di discriminazione, di diversità di onore; motivo di violenza e prevaricazione (del maschio sulla femmina; dell’etero sull’omosessuale; del cisgender sul transgender; etc.). Davvero possiamo far dire a Gesù tutto questo? Anche perché se avesse voluto una differenza binaria prescrittiva non ci avrebbe rivelato la Trinità ma, piuttosto, una presunta “binarietà” divina, come troviamo in tante altre religioni; o magari, all’interno della Trinità avrebbe potuto affermare una gerarchia dell’onore o dignità subordinate (ma questa è l’eresia ariana). E invece Dio è Trinità, non è maschio- femmina, e tra le tre Persone non c’è una gerarchia di dignità, ma una differenza che si compone nell’amore; per l’Essere divino la differenza è costitutiva quanto l’unicità di natura e quindi – ovviamente – di dignità. Per questo, l’immagine e somiglianza di Dio che l’uomo e la donna riflettono non è espressa dalla loro “differenza” in sé, ma dalla capacità di comporre nell’amore la diversità; e questa diversità non viene annullata, ma valorizzata perché questo fa l’Amore, la vera essenza di Dio.
Davvero è significativo quanto il Catechismo ci ricorda al n. 239: «Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio». E ancor più esplicito, l’allora Card. Ratzinger (2001) nel suo testo Dio e il mondo: «Dio è Dio. Non è né uomo né donna, ma è al di là dei generi. È il totalmente Altro. (…) Quando ad esempio si parla della pietà di Dio, non si ricorre al termine astratto di pietà, ma a un termine gravido di corporeità, rachamim, il grembo materno di Dio». Così, Sr. Teresa Forcades ci fa notare – come tutti i biblisti potrebbero confermare – che l’evangelista Giovanni, in continuità con quella tradizione biblica non certo maggioritaria, fa una operazione culturale a suo modo sovversiva al momento di descrivere la relazione di amore del Figlio con il Padre e, analogamente, la relazione del discepolo con Gesù; l’essere l’uno “nel seno” dell’altro: «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18); «uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco (lett. “nel seno”) di Gesù» (Gv 13, 23). Ebbene, ciò che in italiano è reso con “seno” nel greco biblico è originalmente “kolpos”, che in senso figurato può certamente essere inteso come “abbraccio” (lo spazio fisico, affettivo e accogliente, di custodia, che si crea allargando le braccia), ma più letteralmente significa “grembo”, o meglio “vagina”, come testimonia il termine medico moderno “colposcopia”.
Un Dio, quindi, che nella sua trascendenza – diversità – non può essere racchiuso nell’immagine binaria dei sessi, ma certo dalla loro differenza può essere riflesso in qualche modo; a patto che il focus rimanga sulla relazione di amore che li unisce e valorizza questa differenza nella pari dignità. Per questo Dio può essere figurativamente evocato con il concetto di padre (maggioritario) e madre (meno frequente); con attributi maschili e femminili, indifferentemente, perché il focus, in realtà, è l’amore di cui questi attributi sono veicolo. Quindi, certamente Dio si riflette anche nella differenza binaria dei sessi, ma questa non ne è la cifra definitiva; la sua è una diversità sempre ulteriore, trascendente. Anche in questo senso si potrebbe parlare della queerness di Dio. E allora, a questo punto, potremmo ancora dire che le condizioni non- eterosessuale o non-cisgender non possono riflettere l’immagine e somiglianza di Dio?
Credo che sia questo il problema di certa retorica ecclesiastica contro la presunta ideologia gender: fare di un certo tipo di differenza (maschio-femmina) l’unica normativa, caricandola di un tale significato – quasi divino – da dover essere giustificata da tanti stereotipi culturali che alla fine diventano dogmatici e rischiano di ledere la dignità e il valore di uno dei due “diversi” (ad es. l’uomo lavora per mantenere la famiglia, la donna accudisce i figli; il maschio è “capo”, e la femmina è “sottomessa”). Stereotipi che alla fine ledono gravemente anche la dignità di tutti gli altri “diversi”, sessualmente e non. Solo una Chiesa che guarda il mondo con lo sguardo della Trinità, capace di riconoscere pari dignità a tutti i diversi, tutti, potrà essere sempre più all’altezza del Vangelo.