di Marco Pellicano

Quando in bocca ci mettiamo la parola ‘giustizia’, cosa diciamo? Io parlante italiano, io concittadino del mondo, cosa voglio, quando chiedo giustizia? La denunciamo quando già si avvertono i primi tuoni dell’adolescenza: “Non è giusto!”, la reclamiamo quando siamo di fronte alle istituzioni: “Che giustizia sia fatta!” e la inseguiamo quando siamo delusi: “Bisogna farsi giustizia da soli”. Cosa cerchiamo?
Qual è questa sete? Ricevere quel che ci spetta? Farla pagare a qualcuno? Prevaricare? La Settimana teologica del 2023 sarà forse ricordata nei prossimi anni come i sei giorni in cui siamo partiti in pochi e siamo diventati tanti. La quasi contemporanea Giornata mondiale della gioventù, che ha chiamato a raccolta i giovani di tutto il mondo, ha richiesto la partecipazione di non pochi fucini, che hanno dunque perso
l’inizio della Settimana, ma che sono arrivati portando un’urgenza. Un’urgenza, questa, che aveva tutta l’aria di essere cattolica, di avere, in altre parole, il marchio di fabbrica “papa Francesco”. E così, mentre noi contemplativi universitari preparavamo la strada del seminario spirituale, al passo della liturgia delle ore, gli universali pellegrini imparavano l’urgenza di Maria, di “Nostra Signora Affrettata”, colei che – anastása (‘levatasi’, stesso verbo della resurrezione di Cristo!) – compie la prima processione del Corpus Domini, in cammino verso Elisabetta (e Giovanni), porta in grembo Gesù. Ecco come l’entroterra toscano si è spiritualmente collegato alla chiamata cattolica di Lisbona: portare Cristo, al centro Cristo, con Cristo. Il primo passo, necessario a un qualunque confronto, è stato chiedere chiarimento sui termini: definire la ‘giustizia’. L’ultimo passo è stato soddisfare questa richiesta. L’enciclopedia Treccani suggerisce che la giustizia sia una “virtù eminentemente sociale”, volta a riconoscere i diritti altrui, dando secondo legge e ragione a ciascuno il dovuto. Per il Dizionario di teologia biblica invece la giustizia è “l’osservanza integrale dei comandi divini”. Ma come? Osservanza integrale? Dare secondo quale legge? Secondo la ragione di chi? Bisognava ripartire dai testi, tornare alla Fonte di codificazione giuridica del cristiano: la Bibbia. Nel secondo libro di Samuele (2 Sam 12, 1-14), il profeta Natan è mandato da Dio a spiegare al re Davide, mediante una parabola, il peccato commesso da Davide stesso, che aveva sposato la moglie del fedele Uria l’Ittita, previa l’uccisione di quest’ultimo. “Chi ha fatto questo è degno di morte.” Sentenzia Davide, e in risposta si sente dire: “Tu sei quell’uomo!” Il re degli uomini allora, toccato con mano che l’intransigenza non è cosa buona e giusta, si rimette al giudizio di Dio: “Ho peccato contro il Signore!” E Natan: “Il Signore ha rimosso il tuo peccato […] Tuttavia, poiché con quest’azione tu hai insultato il Signore, il figlio che ti è nato dovrà morire.” Diciamolo: ci sembra la storia di un perdono rapido, con minaccia di vendetta alla fine. Il testo però dice il contrario: Dio ha instaurato un’alleanza, un rapporto, con il suo popolo, verticale, in modo che questi sapessero vivere insieme, in un rapporto orizzontale. Offendere un membro della comunità implica offendere Dio, che è parte lesa insieme alla vittima. Dio guarda Davide, peccatore, e da lui separa il peccato: perdona Davide, condanna il peccato. L’azione ha le sue conseguenze, l’azione va punita; la persona va redenta. Perdonare ha come primo passaggio questo: rimuovere la colpa dalla persona. La giustizia è passato. Perdonare, poi, vuol dire anche farle vivere le conseguenze: la giustizia è presente. La vicenda è simile all’episodio neotestamentario dell’adultera (Gv. 8, 1-11), dove l’intransigenza farisaica è superata dal perdono di Gesù: “Nessuno ti ha condannata? […] Neppure io ti condanno: va’, e d’ora in poi non peccare più.” È proprio scritto “d’ora in poi”: la giustizia è futuro. A darci una guida riguardo al rapporto che nella giustizia hanno la punizione e il perdono è stato padre Francesco Occhetta, gesuita, laureato in Giurisprudenza e dottore in Teologia morale. Nel suo libro Le radici della giustizia. Vie per risolvere i
conflitti personali e sociali (2023), padre Occhetta spiega in cosa consiste il passaggio dalla giustizia ‘retributiva’ a quella ‘riparativa’ e perché quest’ultima andrebbe applicata. Il cuore della questione è così sintetizzabile: se non si dà al reo la possibilità di riparare il danno commesso e di riconquistare la fiducia della società, comunità la cui fiducia lui ha tradito, questi sarà recidivo. Lungi dall’essere
un’indicazione calcolatrice, questa via si mostra come la più umana, la più credente. Bisogna credere che un incontro fra il reo e la vittima può costituire il primo passo per una redenzione del reo stesso. Sulla scia di questa suggestione, si è inserito l’intervento di Daniela Sironi, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per il Nord Italia. Il collegamento con il contributo di padre Occhetta è duplice: favorire l’integrazione nella società (in questo caso della vittima, non del reo) e portare la giustizia laddove questa manca. La
Comunità di Sant’Egidio si occupa da anni di costruire dei corridoi umanitari per accogliere gli immigrati in Italia in modo legale, sottraendoli così alle mafie delle tratte. Affinché chi scappa dal proprio paese, come chi arriva da un passato di sbagli, si possa inserire nella collettività, questa se ne deve prendere cura, non potendo delegare tale compito a organi altri e a carceri isolate: l’unico risultato è una degradazione della persona. Forse, se questa Settimana ha portato i suoi frutti, siamo tornati a casa con un’idea più limpida della definizione che cercavamo: la giustizia, quando riparativa, è un processo (dinamico) che consiste nel far prendere le distanze (presente) a una persona da un atto commesso o una situazione vissuta (passato), al fine di inserirla nella società (futuro). Questa è quella che noi chiamiamo giustizia, verso chi ha sbagliato e verso chi chiede di riceverla.

L’obiettivo del cristiano, dunque, lungi dall’essere il proselitismo o il comizio di iazza, è – come si diceva – portare Cristo laddove la giustizia è giustizialismo, mettere al centro la persona, in Cristo, in quanto degna di essere perdonata, e fare tutto questo con Cristo, poiché Lui non solo è giudice, ma è anche maestro.