Una storia di giovani in ricerca: intervista a Romolo Pietrobelli

di Gabriele Cela
RAPPRESENTANTE DELL’ASSEMBLEA FEDERALE (RAF), FUCINO DEL GRUPPO VITTORIO BACHELET
DELL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA E STUDENTE DI SCIENZE POLITICHE – RELAZIONI INTERNAZIONALI.

e Corrado Buscemi
FUCINO DEL GRUPPO VITTORIO BACHELET DELL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA, STUDENTE DI SCIENZE
POLITICHE – RELAZIONI INTERNAZIONALI.

Romolo Pietrobelli
Laureato in filosofia, è stato combattente nella guerra di Liberazione, dirigente e manager nel settore delle
partecipazioni statali e politica industriale, presidente nazionale della FUCI dal 1949 al 1953, poi presidente
dei Laureati cattolici e fautore della sua trasformazione in Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale)
nel 1980.

Cosa l’ha spinta ad aderire alla FUCI, e ad impegnarsi a livello nazionale?
È abbastanza semplice, io sono veneto, sono nato a Schio(VI) e la tradizione della FUCI a Schio era
importante perché nel 1929, il Presidente di allora, dovette dare le dimissioni perché venne estromesso dal
fascismo, quando ci fu la resistenza fra mondo cattolico e fascismo e la FUCI fu una della vittime. C’era in
quell’epoca una competizione tra le regioni del Triveneto tra i ragazzi che studiavano catechismo nel
rispondere correttamente alle domande. Il catechismo era fondamentale, io ricordo che partecipai a questa
competizione e la vinsi. Questo evento mi aveva allenato al confronto fin da allora e questo ha giovato
moltissimo per quanto riguarda la mia formazione personale perché in quell’epoca, quando vinsi questa
competizione, ricordo che dopo ebbi il primo contatto con don Costa, nel 1944. Da quel momento mi hanno
designato delegato regionale del Veneto, poi consigliere nazionale Nordest (della FUCI). A un certo punto
don Costa mi chiede: «Perché non vieni a Roma?». ero ancora uno studente, studiavo filosofia all’Università
Cattolica di Milano, e sono venuto a Roma, dove ho conosciuto Leopoldo Elia, Raniero La Valle, Vittorio
Bachelet, Miesi de Januario. Dopodiché mi hanno eletto presidente della FUCI nel 1949 fino al 1955, i due
trienni successivi. La situazione è stata tale senza che ci sia stata nessuna decisione da parte mia, ma un po’
portato da alcune esperienze: prima la preparazione catechistica precisa e severa, poi il desiderio di
approfondire una preparazione teologica, e l’incontro era avvenuto in questa maniera. Non era difficile a
quell’epoca che i giovani si incontrassero nelle diverse associazioni, perché nel periodo dell’immediato
dopoguerra era un periodo inimmaginabile dal punto di vista degli entusiasmi, del desiderio di imparare, del
desiderio di trovare un inserimento nella società, nella cultura, nella professione. Io ho una gran quantità di
amici, che sono stati il mio polmone. l’amicizia è stata una leva spirituale che in FUCI è stata coltivata in una
maniera splendida, ho dei bei ricordi,ho girato tutta l’Italia in quel periodo e ho avuto il privilegio di
incontrare una quantità di persone di uno straordinario livello.Era un periodo in cui si seminava largamente
e con molta accoglienza, eravamo circa 10.000 aderenti a quell’epoca, a fronte di una popolazione
universitaria di 120.000, quindi un numero importante. E di questa minoranza noi eravamo i più presenti,
eravamo significativi. Sono stato costruito dalla FUCI, è inutile negare che ero un ragazzo di poco peso, un
peso specifico minimo, avevo soltanto la buona volontà.
Ha un aneddoto dei suoi anni da presidente nazionale che vorrebbe condividere con noi?
C’è n’è uno storico per me a Castel Gandolfo con Papa Pio XII. Montini, nella sua generosità, mi regalò la
Vespa, a quell’epoca fu un dono prezioso, c’era molta povertà, sono venuto a Castel Gandolfo in Vespa, con
il frac, con l’impermeabile, in motorino lungo la via sacra in udienza da Pio XII. Nelle università, il rapporto
con gli studenti comunisti ci sollecitava a crescere spiritualmente e culturalmente sul piano della dottrina,
sul piano della cultura. Io non simpatizzavo, ma avevo delle aperture verso il contatto con gli studenti
comunisti, non con la dottrina, ero anticomunista, ma un tipo di confronto-scontro era continuo con i
comunisti. Di quell’incontro ho un incontro molto bello, non di un papa come appariva nelle fotografie e
nelle scene come austero e rigido, lui mi ha rispettato in tutta la sua bontà, io ero emozionato quanto mai.
Sostenni con lui la tesi che noi dovevamo essere anticomunisti ma non allearci con chiunque, la nostra
scelta l’avevamo fatta. Però l’aria che tirava faceva sì che la FUCI venisse considerata fedele, ma sul crinale,

che non ripudiava il contatto e il confronto; quest’ultimo è stato la nostra anima, la nostra spinta spirituale
da sempre, il nostro stile.
Se dovesse parlarci di un elemento che ha contraddistinto la FUCI rispetto alle altre associazioni
studentesche durante gli anni Cinquanta, cosa direbbe?
Guano e Costa avevano impresso nelle file della FUCI uno stile di spiritualità, allora si diceva “pensare la
Fede” avevamo questa specie di marchio, come “piccoli pensatori della Fede” nel senso che la Fede veniva
accolta, la persona che aveva la Fede veniva rispettata integralmente. La pedagogia della FUCI da questo
punto di vista è assolutamente unica perché l’educazione cristiana non ci ha mai schiacciati, ci ha fatti
crescere nella libertà personale, per cui l’adesione alla Verità rivelata è sempre stata un’adesione maturata
lentamente, perciò il metodo della FUCI non è stato mai un metodo facile, non è un’adesione superficiale, di
obbedienza e basta, era un tentativo continuo. Il giornale «Ricerca» è simbolo di questo atteggiamento che
veniva inserito nel nostro spirito, nelle nostre anime, in questo senso Montini era uno straordinario
maestro, perché non ci sentivamo mai soggiogati e dominati da un punto di vista intellettuale, come coloro
che non dovevano pensare perché c’era un altro che pensava per te e tu obbedivi. Venivamo educati a
sveltire il cervello, lo stile della FUCI non è facilissimo da vivere, perciò è sempre stata individuata con una
sua caratteristica, che poi lascia il segno per tutta la vita, si passava attraverso il filtro dell’intelligenza, c’era
un tentativo di coniugare fede e ragione, è un segreto non da poco. Nonostante l’età, la vocazione della
FUCI rimane dentro.
Secondo lei fino a quali anni la FUCI ha avuto un ruolo di formazione intellettuale e culturale incisivo in
Italia?
Come si diceva, è difficile stabilire un’epoca precisa perché il processo di secolarizzazione ha invaso tutti i
campi e l’entusiasmo nell’adesione alle associazioni si andava affievolendo sempre di più. Non c’è dubbio
che la FUCI ha subito un attacco distruttivo sia della sua identità culturale e spirituale che anche in
consistenza numerica. Questo per dire che non è colpa del destino, piuttosto sono fenomeni congiunti,
soprattutto frutto della secolarizzazione, per cui non c’è più posto per Dio, che è solo qualcosa di aggiunto,
che non interviene nella vita del singolo uomo, della società, delle singole scelte. Poi, da una preparazione al
contempo spirituale, intellettuale e culturale, c’è sempre stata un’apertura ai problemi della società civile e
del paese: in questo senso la FUCI è stata ed è una scelta politica in senso ampio. Però noi non ci siamo fatti
prendere dalla lotta politica in senso stretto, che richiede schieramenti e compromessi. Era un’apertura
totale ai problemi del Paese. Quindi sarebbe stato un tradimento alla vocazione della FUCI non avvertire la
domanda che tutte le generazioni facevano e fanno. In questo senso la politica ha preparato, in sottofondo,
le leve del partito della Democrazia cristiana, però non si può dire che la FUCI è stata ed è democristiana.
Senza dimenticare che dalla FUCI sono usciti molti professionisti e politici nel periodo che va dal ’49-’50 agli
anni ’70. Quindi l’influenza è stata decisiva nelle generazioni che vanno dal ’50 al ’70. si può dire che la FUCI
è nella storia del Paese come è nella storia della Chiesa. Siamo stati sia progressisti, sia conservatori perché
il nostro tema era “Memoria, tradizione e ricerca”, perché ci fosse un significato nel presente. I gruppi di
studio, poi, erano esattamente un incontro di cultura, ragione, problemi dell’uomo e,
contemporaneamente, trascendenza e spiritualità. Da questo punto di vista Camaldoli, per esempio, è stato
un vivaio e un centro di formazione assolutamente straordinario. Senza queste fonti noi non avremmo avuto
forza nel presente. Si può dire certamente che siamo stati conservatori, ma di ciò che avevamo conquistato
come patrimonio di verità, spiritualità e fondazione anche del rapporto uomo-donna. In tal senso donne e
uomini, ragazze e ragazzi, nella FUCI, hanno avuto uguale dignità sin da subito. Non vi è stata inferiorità,
come in altri settori della vita, tra l’uomo e la donna. Adesso, invece, la Chiesa fa fatica a trovare il
linguaggio: adesso, per esempio, con la vostra preparazione riuscite a lasciare un segno in mezzo agli altri
giovani? Quali sono i piccoli ponti che create tra voi e quelli che non credono? Vi è possibilità di una
comunicazione della fede attraverso la vita dello studio?

Terminata la FUCI ha continuato a impegnarsi nel Movimento laureati di Azione cattolica. Lei è stato il
principale fautore del passaggio all’attuale nomenclatura MEIC: in base a quali necessità è avvenuto
questo passaggio?
Sentivamo in parecchi la noia di questa etichetta, che ci confinava in una struttura tutto sommato chiusa.
Quanto ci abbiamo lavorato per trovare il nome giusto! E tutto sommato risponde abbastanza (Movimento
ecclesiale di impegno culturale), volendo insomma indicare che cammina con la Chiesa e che cammina con
la cultura. Con Laureati di Azione cattolica eravamo un gruppo un po’ schedato. Abbiamo però faticato
parecchio perché c’era una resistenza molto forte in quelli che erano affezionati al mondo antico. Si trattava
invece per noi di coniugare il passato nel presente in una maniera adeguata, in una maniera quale i tempi
chiedevano. Come adesso anche per voi la FUCI, che non è quella di ieri. La mia domanda adesso è: su cos’è
che voi puntate di più? Cos’è che vi fa essere positivi e aperti al futuro? Noi avevamo delle prospettive: il
servizio al paese e la testimonianza cristiana in mezzo alle professioni con tutte le iniziative (da Camaldoli ai
gruppi di Vangelo, ai gruppi di studio e tutti i volumi che abbiamo pubblicato). Insomma c’era un tessuto
unitario che ci conduceva avanti e ci faceva guardare al futuro. Adesso io ho la sensazione che la società sia
esplosa, tant’è vero che si parla con disinvoltura di scristianizzazione.
Per noi il passaggio è avvenuto proprio perché il Movimento dei laureati sembrava un gruppo un po’ chiuso
nello schema del “pezzo di carta”. Il Meic è aperto a chi non ha la laurea purché abbia un certo tipo di
cultura. Mi ricordo un giovane operaio dirigente di Bari che mi chiese: «Mi posso iscrivere?». «Certamente
sì», io gli risposi: non aveva fatto il curriculum universitario però era intelligente, studiava, leggeva, era
documentato. Insomma sapeva quando parlava quel che diceva. Quindi Meic significa fondere fede e
cultura. Oggi questa fusione come avviene? Dove avviene? Quali sono i luoghi, i territori in cui avviene, in
cui è possibile esprimere questa fusione di fede e cultura? Per cominciare il cammino della FUCI o del Meic,
due sentieri diversi ma assolutamente comunicanti, quali sono i temi di fondo? Certamente il Vangelo e la
risurrezione della Chiesa, il recupero della Chiesa come comunità di credenti senza confini.