Cos’è e cosa ci dice oggi il Codice di Camaldoli? Molta storia è stata fatta in quel monastero e lì i monaci hanno voluto ricordare, studiare e approfondire cos’è stato quel convegno e quel codice di ottant’anni fa. Tre giornate dense di lezioni e approfondimenti di molti esperti professori e autorità ecclesiastiche. Il primo giorno è stato presente anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Presidente della CEI, il cardinale Matteo Zuppi, ha aperto i lavori.
Di fronte alle necessità della storia, di fronte all’avvicinarsi della fine della Seconda guerra mondiale cosa fecero i cattolici del tempo? Papa Pio XII già nel suo radiomessaggio della vigilia di Natale del 1942 disse “Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società”. Pio XII, ha detto Zuppi, “incitò i laureati cattolici a passare all’azione sul piano culturale, traducendo l’insegnamento della Chiesa in un linguaggio moderno e comprensibile a tutti”, iniziava a nascere la necessità e l’urgenza di un confronto tra il pensiero cristiano e i problemi del tempo in vista della prossima ricostruzione del paese e della costruzione della pace futura. Il cardinale nella prolusione ha inciso molto sulla pace e ci avverte sul tempo presente “E dovremmo ricordarci che l’infiacchimento della democrazia è sempre un cattivo presagio per la pace”.
“Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società”
Gli antichi scontri tra Chiesa e Stato avevano allontanato il pensiero cattolico dalle riflessioni sullo stato; perciò, mancava una componente di pensiero di cui, improvvisamente, si sentiva un urgente bisogno e i giovani del movimento laureati di azione cattolica, insieme a teologi e assistenti del movimento, riuscirono a colmare questo vuoto con il convegno di Camaldoli. Un convegno di studio e meditazione, perché come si legge in un verbale dei lavori preparatori “le competenze non si improvvisano”. “L’ordine dei lavori si sarebbe articolato su quattro livelli: la discussione e l’accordo sulle questioni più urgenti; la raccolta di brevi enunciati del pensiero sociale cattolico; l’organizzazione di comitati di redazione sui singoli argomenti; l’esegesi della dottrina, per chiarire in che modo essa potesse meglio affermarsi come fondamento di un ordine sociale non solo astrattamente giusto ma anche storicamente possibile” come già fu per il Codice di Malines, ci espone il professor Tiziano Torresi, già presidente nazionale della Fuci. Il codice di Camaldoli, quindi, non è un vero e proprio “codice”, non è un testo di tipo normativo, è una dichiarazione di principi pubblicata con il titolo “Per la comunità cristiana, principi dell’ordinamento sociale” e, nell’intento degli autori, alla fine degli enunciati ci sarebbero dovute essere delle pagine bianche, purtroppo non inserite per la mancanza di carta durante la guerra, così da annotarvi osservazioni, critiche a approfondimenti per poter integrare e migliorare questi principi.
“E dovremmo ricordarci che l’infiacchimento della democrazia è sempre un cattivo presagio per la pace”
Cos’è stato, quindi, il Codice di Camaldoli? È stata l’unione di un gruppo di giovanissimi intellettuali cattolici che hanno voluto mettere il bene comune e la giustizia sociale come unico centro del loro pensiero e agire politico, non avendo paura di sbagliare, piuttosto avendo paura a sottrarsi dalle loro responsabilità. Sergio Paronetto fu il principale coordinatore dei lavori e una volta scrisse “A latere di discussioni e programmi per l’avvenire che impegnano tutta la nostra attenzione c’è una distinzione tra le parole e il fare, tra le chiacchere e la vita. E mi par nettissima la nostra posizione, la nostra vocazione: è dalla parte del fare, con la croce, se vogliamo, dell’azione, non con la irresponsabilità e la comodità mentale di chi sta a guardare. Saremo dalla parte della barricata, dove si opera sugli uomini. Saremo tra quelli che verranno discussi e giudicati perché faranno, non fra quelli che giudicheranno e discuteranno. Saremo con quelli che sbaglieranno, non con quelli che troveranno da ridire, perché si è sbagliato; con quelli che avranno sempre torto, perché ci sarà sempre qualcuno che potrà dire ‘così bisognava fare, così io avrei fatto’. Posizione scomoda, forse. Ma guai a fuggire: bisogna impegnarsi, finché si può”
La seconda giornata del convegno è la più densa: la sessione mattutina si apre con un’approfondita introduzione da parte del professor Ugo De Siervo, già presidente della Corte costituzionale, che sottolinea il ruolo centrale che i laureati cattolici ebbero nella modernizzazione del pensiero sociale/istituzionale della Chiesa: infatti, sarà solo con il radiomessaggio di Natale del 1944 che papa Pio XII parlerà espressamente di democrazia; ma già un anno prima, nel luglio del 1943, nei lavori preparatori del codice di Camaldoli possiamo intravedere una prima chiarificazione del Magistero sul ruolo dello Stato, in chiave liberal-costituzionale. Seguono diversi interventi che indagano vari aspetti della storia e del contesto in cui è sorto il codice: dall’ispirazione che ha guidato i “camaldolini” di 80 anni fa, al ruolo dei teologi e della teologia nel dibattito del tempo, alla sorte che ebbe il codice negli anni successivi di storia repubblicana tra fluire carsico e mitizzazione.
L’intervento più atteso della mattinata è quello della professoressa Marta Cartabia, già presidente della Corte costituzionale e Ministro della Giustizia: “dal codice alla Costituzione”. Subito afferma che “la Costituzione è un testo in cui il cattolico si sente a proprio agio”, pur essendo scaturita da un’Assemblea costituente plurale: una Carta “nata per unire” (secondo il felice titolo di un libro di Enzo Cheli), un testo in cui tutti, nel tempo, si potessero rispecchiare. Il contributo diretto che la cultura cattolica del tempo ebbe sulla Costituzione lo si può notare eminentemente nella declinazione che agli articoli 2 e 3 della Carta troviamo dei rapporti tra persona – società e Stato: la corrente di pensiero del personalismo nutre la cultura dei giovani cattolici del tempo, sotto la guida di mons. Montini e mons. Bernareggi; da Camaldoli si riversa, per il tramite delle stesse persone, in Assemblea costituente, come si può evincere dalla relazione che fece Giorgio La Pira: l’anteriorità della persona rispetto allo Stato, il riconoscimento della centralità delle “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, la garanzia non solo dei diritti e delle libertà individuali, ma anche dei diritti sociali. L’esperienza di Camaldoli ci mostra come sia fondamentale e fecondo coniugare maturità del pensiero, competenza e capacità di dialogo, con la concretezza e la vicinanza ai problemi: così si riuscì ad innervare di giustizia sociale il codice di Camaldoli e, in un secondo momento, in sintonia sul punto con le altre culture politiche, la Costituzione.
L’esperienza di Camaldoli ci mostra come sia fondamentale e fecondo coniugare maturità del pensiero, competenza e capacità di dialogo, con la concretezza e la vicinanza ai problemi: così si riuscì ad innervare di giustizia sociale il codice di Camaldoli e, in un secondo momento, in sintonia sul punto con le altre culture politiche, la Costituzione.
Il pomeriggio di sabato e la mattinata di domenica sono dedicati all’approfondimento dei 7 titoli in cui è suddiviso il Codice: lo Stato, la famiglia, l’educazione, il lavoro, produzione e scambio, attività economica, vita internazionale. Questa panoramica restituisce un quadro completo e interessante della integralità con cui i partecipanti di Camaldoli vollero affrontare le sfide che “l’ora presente” poneva loro: l’obiettivo di creare un campo culturale di riferimento, voleva consegnare ai cattolici dell’epoca uno strumento di lavoro – metaforicamente parlando – non simile ad un compasso, con cui tracciare un perimetro definitivo e chiuso, da cui osservare chi stava all’esterno; piuttosto ad una bussola, un primo momento di scambio di idee tra studiosi cattolici, partendo dal quale instaurare un dialogo comprensibile ed efficace con gli altri attori della scena pubblica.
In conclusione, come porci noi oggi davanti ad un’esperienza alta e affascinante come quella che abbiamo raccontato? Sicuramente ne possiamo trarre un insegnamento sul metodo di lavoro, che ancora oggi può essere valido e fecondo. In secondo luogo, per confrontarci positivamente con precedenti come questo, occorre ricordarci che si va avanti non custodendo le ceneri, ma alimentando la fiamma. Come disse mons. Montini “Parvero faville, qui è lecito immaginare seguito di gran fiamma”; a noi il compito di non far mancare la legna, secondo i modi e lo stile propri del nostro tempo e della nostra chiamata.
Federico Vivaldelli, FUCI Milano
Giacomo Funghi, FUCI Firenze
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