QUELLA FEDE CHE CI RENDE PROVOCATORI DELLA QUOTIDIANITÀ

di Caterina Ugolini

FUCINA DEL GRUPPO DI PADOVA E STUDENTESSA DI PSICOLOGIA SOCIALE,
DEL LAVORO E DELLA COMUNICAZIONE

 

Mi permetto di fare indebitamente mia una citazione dal film Patch Adams:

«Cosa c’è di sbagliato con la morte signore? Di cosa abbiamo mortalmente paura? […] La morte non è il nemico, signori. Se dobbiamo combattere una malattia, cerchiamo di combattere una delle malattie più terribili di tutte, l’indifferenza».

Ritengo che queste parole ben esprimano un concetto chiave: la fede cristiana ci insegna a non avere paura di alcun cambiamento, partendo proprio dall’accompagnarci ad affrontarne serenamente il maggiore di tutti, ovvero la morte, a patto, però, che qualsiasi cambiamento sia vissuto tenendo saldi in noi gli essenziali principi etici, umani ed esistenziali verso i quali il cristianesimo stesso ci guida. Di fatto, il vero elemento di cui si deve temere e rispetto al quale siamo allertati è l’indifferenza: l’indifferenza dello spirito, verso l’uomo, verso la sofferenza, verso i principi morali e sociali del vivere. Quell’indifferenza verso la quale siamo stati, e continuiamo quotidianamente a essere, traghettati da una buona parte dei fenomeni odierni. È impossibile in poche righe riassumerli nella loro totalità e complessità, ma basti soffermarsi sull’utilizzo spasmodico delle tecnologie e dei social, i quali concorrono a sostituire la vicinanza e il confronto diretto, nella vita reale, con distanze umane incolmabili, che velocemente possono diventare anche distanze esistenziali. La diffusione della violenza tra i più giovani, l’uso e abuso di sostanze di varia natura per sopperire al sentimento di disagio che la scarsità di contatti reali, purtroppo lascia; ancora, un crescente disinteresse verso slanci ideali forti, condivisi (e non derisi) tra coetanei; un sentimento di responsabilità civile e reciproca purtroppo passato di moda, che non suscita alcuna indignazione di fronte a un fenomeno di bullismo ma suggerisce, invece, di filmarlo partecipando con il sorriso al suo dolore.

Come, dunque, di fronte alle mutate condizioni sociali e alle nuove sfide umane, i giovani, primi soggetti e, al tempo stesso, potenziali vittime di tali sfide, possono collocarsi nei confronti della fede, reinvestendola di un ruolo nuovo e attuale? Che significato è chiamata ad assumere, o a ri-assumere, per divenire parte delle risorse fondamentali della loro persona? Di fatto, come dicevamo, la fede rappresenta un inno al cambiamento. Quanti gli episodi, tanto biblici quanto quotidiani, in cui la fede si è posta al servizio del cambiamento interiore e/o di vita di numerose persone e, di conseguenza, delle comunità in cui andavano poi operando? Un cambiamento, però, che, se vissuto sinceramente, aiuta a procedere sempre verso il Bene.

Don Giussani, che ha saputo unire nella sua persona la familiarità con la fede alla familiarità con i giovani, rendendo la prima un’amica quotidiana di questi ultimi, sottolineava l’esigenza di «riprendere coscienza di ciò che è il cristiano: vale a dire un protagonista nuovo nella storia. Un uomo che vede, progetta e si dedica per amore»¹ e per il quale «la solitudine è impossibile»². Parole che esprimono potentemente quanto la fede sia motore eccelso di cambiamento, di generatività, di tensione ideale e produttiva, di ri-possibilitazione per chiunque, tanto a livello individuale e interiore quanto, e questo è il secondo punto fondamentale, in unione con chi ci circonda e con Dio. La fede può quindi farsi generatrice di valori mediante i quali i giovani, e con essi chiunque lo voglia ed entri in questo comune sentire, possono riprendere un ruolo attivo, creare relazioni reali con chi li circonda, e scoprirsi capaci, di far sorgere in coloro che incontrano, il desiderio, ormai nuovo e bisognoso di riscoperta, di dialogare davvero, interrogarsi, cercare e agire dando amore e difendendo questo profondo valore della vita mediante i propri progetti. Nella fede i giovani si incontrano e possono divenire scintilla di nuovi incontri, contrastando le forze alienanti di cui tutti siamo oggi, almeno un poco, vittime.

Ecco che non ci si sente più soli, perché si scopre che non lo siamo forse mai stati e che comunque è impossibile esserlo, né in società, né nel silenzio della propria stanza, se quel silenzio diventa dialogo e vicinanza umana con gli altri, oppure viaggio di riscoperta in sé stessi e in Dio. Sempre riprendendo un estrapolato di don Giussani, «la compagnia cristiana è una realtà creata dal cambiamento che la persona, incontrando Cristo, realizza in se stessa. È un cambiamento di mentalità, da cui nasce un altro modo di vedere, di concepire e di giudicare le cose. E muta la dinamica dei rapporti che si spalancano a una capacità di amare impensabile prima, in un compito che ha un orizzonte infinito di bene […] si può star soli e nello stesso tempo scoprirsi in compagnia. Ed è un paradosso che il mondo d’oggi proprio non accetta»³.

Cambiare per divenire non perfetti ma migliori, non esenti da difetti bensì più grandi di cuore, di progettualità, di relazioni, proprio includendo quei limiti personali che inizialmente ci fanno tanta paura, proprio nonostante quei difetti che ad un occhio “social” sembrano non accettabili. Cambiare all’insegna dell’ideale cristiano diventa una crescita interiore costante, un impegnarsi a far fiorire tutto il potenziale che, in quanto esseri umani, ci è dato ed è in noi, mutando sguardo sulla malattia, sui canoni e sulle priorità che definiscono e influenzano le vite; riuscendo a perdonare, a perdonarsi, e, con franchezza, incontrarsi davvero per crescere insieme. Guardandosi intorno con sguardo nuovo si capisce quanto si possa ancora stupire, e quanto sia proprio un comportamento e un dialogo genuino e sincero a farlo, un sorriso che guarda oltre, più avanti del singolo errore; un giudizio che non si sofferma alla prestanza fisica di chi si ha di fronte, ma si volge più a fondo, volendo conoscere quel fondo. Perché, fenomeno all’apparenza paradossale ma in verità assolutamente coerente, tanto più la società si stacca dai valori umani e da uno sguardo interiore, reprime le domande esistenziali illudendosi della loro futilità, tanto più il bisogno di vero contatto e di appagamento di quell’anelito, proprio di ognuno, che ci fa protendere all’infinito si acuisce. Tanto più ci si scopre in verità fragili e profondamente alla ricerca di risposte non saziabili mediante un giro sul web; una fragilità che, in realtà, può essere profondamente bella poiché attenta agli stimoli che le si presentano negli incontri che la vita propone, aperta a un inizio di cambiamento e di crescita se tali incontri si rivelano realmente capaci di toccare il cuore. Ebbene, penso che il fulcro del cambiamento vissuto con fede sia divenire felicemente vivi, rinnovare l’entusiasmo e comunicarlo senza bisogno di lunghe parole, semplicemente perché la gioia quando provata realmente trapela, si diffonde nello spazio circostante e, in un cuore bisognoso e attento, arriva.

Forse una delle più grandi missioni odierne è esattamente quella di riuscire a riscoprire la felicità per coloro che avrebbero tutte le “carte in regola”, secondo questo mondo, per averla; una maggioranza, ovvero, cui pare non manchi nulla, ma in realtà è pervasa da quel senso di vuoto, di noia che porta con sé doni deleteri e talvolta mortali, anche fra i più giovani. Questo si può fare insieme. Sono sempre stata fondamentalmente convinta che le persone possano, così come si feriscono, “curarsi a vicenda”, spesso senza saperlo, né avendo la primaria intenzione di curare, semplicemente, però, incontrandosi e condividendo pezzi di vita, perseguendo e costruendo il proprio progetto esistenziale, condividendo il dolore e facendogli assumere nuova luce, scoprendosi deboli sì, e talvolta un po’ spersi, ma profondamente umani e, in quanto tali, pieni di quell’infinito cui tutti aneliamo, di talenti da far fruttare, di orizzonti da delineare, di idee per le quali vivere e scrivere e non avere paura, né tantomeno vergogna. In una parola, pieni di vita, una vita per la quale vi è sempre speranza e si è sempre in grado di trovare speranza!

Credo sia questa la sfida moderna richiesta alle nuove generazioni sostenute dalla forza della propria fede: riscoprire e, così facendo, testimoniare l’entusiasmo per la vita tra i coetanei che sembrano andare perdendolo; contribuire a invertire la dilagante tendenza ad alienarsi e isolarsi, mostrando quanto curativo e motivante possa essere incontrarsi realmente e cercare insieme, affrontare insieme il cambiamento; testimoniare che si può essere felici, che sono le idee e le azioni a definire l’uomo e non l’apparenza fisica, una sbandierata assenza di sofferenza e l’attività social; mostrare che si può vivere, divertirsi e crescere senza bisogno di ricorrere ad altre vie che ben presto ci privano della libertà divenendo dipendenze, psicologiche e fisiche. Quindi non smettere mai di cercare, e trovare, un senso a questa meravigliosa esistenza, in grado di essere dolorosa e sfidante, ma anche e a maggior ragione per questo, sempre profondamente incredibile e degna di essere vissuta e fatta fruttare, in ogni situazione e con ciascuna delle capacità che ci sono date. Semplicemente, costruire il proprio percorso esistenziale non reprimendo ma coltivando il dubbio, e vivendo per trovarvi risposte, insieme. Questo è cambiamento vero, questa può essere la necessaria innovazione per e in questo mondo, esattamente là dove, nell’omologazione, pare non ve ne sia più bisogno. Questo è il reale anticonformismo di chi ha il coraggio di continuare a testimoniare la vita e trarre forza e determinazione dal suo ideale. È un cammino bellissimo che deve prendere avvio in ciascuno di noi per poter poi divenire testimonianza tacita, semplicemente agita, in coloro che incontriamo, nella fede per la gioia che una vita realmente vissuta è capace di lasciare indelebilmente in qualunque animo umano.

  1. L. Giussani, R. Farina, Un caffè in compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino, Rizzoli, Milano 2004, p. 117.
  2. Ibidem.
  3. Ivi, p. 131.