PER UN “EPOS DI PACE”
di Valentina Stabilini
FUCINA DEL GRUPPO DI MILANO CATTOLICA, STUDENTESSA DI FILOLOGIA MODERNA ALL’UNIVERSITÀ
CATTOLICA DI MILANO
Berlino, anni Ottanta. Gli angeli Damiel e Cassiel osservano dall’alto gli abitanti di una città spaccata in due dalla Guerra fredda. Uomini e donne che affrontano le gioie e i dolori dell’esistenza. Berlinesi desiderosi di ricostruirsi, ma che ancora sentono il peso della storia nelle macerie di una Potsdamer Platz ormai inesistente dalla Seconda guerra mondiale. Berlino: terra di confine, città di conflitto e rinascita.
In questo limbo camminano gli angeli, invisibili agli occhi di tutti tranne che al puro sguardo dei bambini. Si spostano lentamente, immersi in un’atmosfera eterea, ascoltando i pensieri della gente. Consolano gli afflitti e donano conforto a chi è nel bisogno. Studiano attentamente le mosse degli umani, annotando sui propri taccuini tutto ciò che li colpisce, tra l’incomprensione e la curiosità. È così che Damiel incontra e si innamora della trapezista Marion, prendendo l’irreversibile decisione di diventare un uomo.
Premio per la migliore regia al 40° Festival di Cannes, Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) è un film del 1987, diretto e sceneggiato da W. Wenders, con il supporto dello scrittore Peter Handke. Con un cast d’eccezione, tra i protagonisti figurano Bruno Ganz, Curt Bois e Peter Folk. Nota di merito anche per l’eccezionale fotografia, curata da Henri Alekan, il quale riesce a differenziare il punto di vista degli angeli, che vedono in bianco e nero, da quello degli umani, a colori. Ciò che prende vita è un’opera d’arte dai tratti poetici e metafisici, il cui fulcro ruota attorno a numerosi temi esistenziali che fanno de Il cielo sopra Berlino un inno alla vita, all’amore e alla pace.
Il film riflette innanzitutto sulle coordinate di spazio e tempo. Infatti, gli angeli si collocano fuori dal tempo, in una dimensione eterna in cui non è possibile provare veri sentimenti o intervenire direttamente sulla realtà, ma soltanto svolgere una funzione di testimonianza (come l’Angelo della Storia di W. Benjamin,
ispirato all’Angelus novus di P. Klee). Gli esseri umani, al contrario, sono inseriti nel processo della storia: possono emozionarsi, prendere decisioni reali e affrontarne le conseguenze. La città si rivela attraverso un alternarsi di immagini del passato e del presente: da un lato, i video originali di una Berlino completamente distrutta dopo la Seconda guerra mondiale, fonti dal prezioso valore storico-documentario e memoria di ciò che è accaduto; dall’altro, la nuova Berlino in fase di ricostruzione, consapevole del proprio passato, ma ancora ricca di tensioni.
Nel corso della narrazione, Damiel si rende conto di non voler più vivere per finta, immerso in una condizione di eternità. Vorrebbe liberarsi dalla costante sensazione di fluttuare per accogliere dentro di sé un peso che lo leghi in qualche modo alla Terra. Vorrebbe poter dire «ora» e non più «da sempre», liberandosi di «un mondo dietro al mondo». Vorrebbe godere delle azioni più semplici ed emozionarsi. Vorrebbe influire sulla realtà tramite scelte concrete e consapevoli. Insomma, vorrebbe conquistarsi una storia. Ad aiutarlo nella maturazione di tale decisione, oltre l’amata Marion, è un personaggio che si rivela fondamentale: l’anziano poeta Homer. Egli rappresenta il cantore dell’umanità, come il nome stesso, d’altra parte, dovrebbe suggerire. Così esordisce: «Narra, Musa del narratore, l’antico bambino gettato ai confini del nulla e fa’ che in lui ognuno si riconosca». Nel film, Homer incarna la memoria e l’infanzia, due dimensioni imprescindibili all’uomo. La prima consente di imparare dal passato, avvalendosi della parola come strumento di testimonianza e di vita. La seconda ricorda che la meraviglia impreziosisce l’esistenza e che anche da adulti non si smette mai di essere bambini. A tal proposito, l’intero film è scandito dalla poesia di P. Handke, Quando il bambino era bambino, meraviglioso elogio dell’infanzia.
Seguendo questo personaggio e ascoltando i suoi pensieri, Damiel intuisce che nei suoi discorsi deve essere celato un messaggio importante. Homer, con animo a tratti sconsolato, descrive una realtà contemporanea che sembra averlo relegato ai margini della società. È un’umanità che spesso rischia di perdere la memoria e lo stupore verso la vita, l’amore e la pace. Specialmente quest’ultimo tema diventa fondamentale di fronte alle ricorrenti immagini di una città che solo quarant’anni prima era stata devastata dalle bombe e ora si trova divisa da un muro insormontabile. Così riflette l’anziano poeta:
I miei eroi non sono più guerrieri e re, ma i fatti di pace. Uno vale l’altro: le cipolle messe a seccare, buone come il tronco d’albero che porta attraverso la palude. Ma ancora nessuno è riuscito a cantare un epos di pace. Cosa c’è nella pace che alla lunga non entusiasma e non che si presta al racconto? Devo darmi per vinto? Ora? Se mi do per vinto allora l’umanità perderà il suo cantore e quando l’umanità avrà perso il suo cantore avrà perso anche l’infanzia.
La ricerca di una parola che possa contenere un messaggio di pace è la priorità per il vecchio cantore. Tuttavia, la condizione necessaria perché un epos di pace possa finalmente realizzarsi è proprio la compresenza, nell’uomo, di memoria e infanzia: mai perdere il ricordo di ciò che è stato, mai perdere la capacità di meravigliarsi.
Le riflessioni di Homer aiutano Damiel nel suo percorso di discernimento. Per vivere davvero ha bisogno del peso dell’esistenza, della storia, della responsabilità. Ha bisogno, anche, della bellezza e dello stupore. Ne conclude che soltanto attraverso scelte consapevoli ed entusiasmo per la vita si può costruire un epos di pace. Abbracciare questa decisione significa impegnarsi, giorno dopo giorno, in una costante ricerca del bello. Ciò comporta una perpetua e coraggiosa conversione del proprio animo. È nella continua riscoperta dei valori dell’umanità, allora, che si può vivere una vita bella e piena, fondata sull’amore e sulla pace. Pace che, finalmente, potrà essere cantata.
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