TRA LE BARACCOPOLI E BEETHOVEN: LA MUSICA COME PORTATRICE DI PACE

di Gabriele Petouchoff

CONDIRETTORE DI «RICERCA»
STUDENTE DI COMPOSIZIONE PRESSO IL CONSERVATORIO “NICCOLÒ PAGANINI” DI GENOVA
E L’ACADEMY OF MUSIC AND PERFORMING ARTS DI TILBURG (PAESI BASSI)

La musica deve essere riconosciuta come un agente di sviluppo sociale nel senso più alto, perché trasmette i valori più alti: solidarietà, armonia, compassione reciproca. E ha la capacità di unire un’intera comunità e di esprimere sentimenti sublimi.

In questo modo si esprimeva José Antonio Abreu, musicista, educatore e politico venezuelano ideatore di El Sistema, una fondazione che promuove un innovativo metodo di educazione musicale per bambini e ragazzi. Diffuso capillarmente in tutto il Venezuela e poi esportato all’estero, totalmente gratuito
e aperto a tutte le classi sociali, El Sistema è stato ed è tutt’ora occasione di riscatto per innumerevoli ragazzi, che vengono strappati alla povertà, al crimine e alla violenza tramite lo studio della musica. Abreu ideò questo metodo per salvare letteralmente i bambini dalle baraccopoli di Caracas: ad oggi, conta quasi 300 scuole di musica, ognuna delle quali con un’orchestra sinfonica e un coro, sparse in tutto il Venezuela, perfino nelle carceri e nei riformatori. La forza di questo progetto sta nella capacità di cambiare profondamente le vite dei ragazzi coinvolti: non solo infatti vengono salvati dalla strada o da situazioni di indicibile disagio materiale e psicologico, ma l’incontro con la grande musica dona loro la possibilità di superare la sofferenza proprio grazie al fare artistico, che permette la ricerca
di un senso e dona dignità all’uomo. La bellezza, nella sua concretezza, cambia profondamente il cuore dell’uomo, generando vere e proprie epifanie spirituali. E se, come cattolici, crediamo che bellezza, bene e verità siano enti indissolubilmente legati in Cristo, la cosa allora non dovrebbe stupirci.

L’esperienza di El Sistema mostra che l’arte, agendo sullo spirito dell’uomo, finisce per cambiare radicalmente le comunità, influenzando in meglio tutta la società, nel suo vivere insieme, nel suo essere polis. Gli artisti, in altre parole, rendono un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune, come
sottolineato da s. Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti¹. La musica in particolare è, tra le arti, forse quella più collettiva e a carattere aggregativo: infatti (non considerando la registrazione e la diffusione della musica prima tramite disco e poi via internet, ed escludendo le peculiarità della musica elettronica), la musica è esistita in passato – ed esiste! – soltanto nel momento in cui delle persone si ritrovano insieme per esprimersi e relazionarsi. Un quadro esiste di per sé; una poesia, un libro, una scultura esistono di per sé; la musica, invece, che è presente in potenza nella partitura, si materializza nella sua concretezza soltanto quando viene eseguita. A nulla varrebbero gli sforzi di un compositore, se questi non avesse a disposizione un’orchestra che suoni ciò che egli ha gettato sulla carta. Ed è così che questo mirabile linguaggio che è la musica – a cui è necessario però essere educati per comprenderlo, come per qualsiasi lingua – permette la nascita di gruppi come quelli diretti dal gambista catalano Jordi Savall, che ospitano al loro interno musicisti di fedi e nazionalità differenti, talvolta in aperta rivalità – se non guerra – tra loro, come Spagna e Catalogna, Turchia e Armenia, Israele e Palestina.

Immergendosi nella storia della musica si può osservare però come ci siano alcuni capolavori che più di altri hanno la capacità di esprimere un messaggio di pace, in virtù – anche, ma non solo – dei testi di cui sono composti. Desidero qui fornire un’introduzione e un commento alla celeberrima Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven, una delle vette più alte della musica occidentale.

Questa sinfonia, dalla durata media di settanta minuti, presenta delle peculiarità che la rendono unica nel suo genere: a partire dal fatto che, fino al 7 maggio 1824, data della sua prima esecuzione assoluta, la sinfonia era un genere prettamente strumentale: si definisce sinfonia infatti un ampio lavoro per orchestra
diviso solitamente in quattro parti separate, chiamate movimenti. Tipo di composizione che, quindi, esclude la presenza di voci. Beethoven fu il primo a inserire in una sinfonia – nel quarto movimento – un coro e dei cantanti solisti, inaugurando una tradizione che verrà ripresa, tra gli altri, anche da Gustav Mahler.
In questo modo Beethoven rinnovò il genere sinfonico, aprendo le porte a nuove possibilità e combinazioni, proprio per il contributo che un testo cantato può dare alla ricezione del materiale musicale. Inoltre Beethoven mette in crisi il concetto stesso di sinfonia anche facendo convivere diverse influenze musicali, a partire dallo stile operistico, fino a quello polifonico proprio della tradizione sacra, passando per la musica militare.

La Nona sinfonia è la storia di un’incredibile lotta interiore contro il male, che culmina in un finale estatico ricolmo di gioia: Beethoven, ormai totalmente sordo, aveva infatti dovuto contrastare negli anni precedenti terribili pensieri di suicidio – raccolti nel commovente Testamento di Heiligenstadt, una lettera mai spedita, datata 1802, in cui il compositore lamentava la disperazione causata dalla sua crescente sordità, che lo portò all’isolamento. Beethoven temeva il giudizio altrui: cosa si potrà mai pensare di un compositore sordo? Con il prossimo egli si fingeva distratto per non mostrare che stava perdendo l’udito ed era addirittura definito misantropo da chi, superficialmente, interpretava come odio per gli uomini il suo carattere difficile legato a questa indicibile sofferenza.

Ma, come scrive Eschilo nell’Inno a Zeus dell’Agamennone, «pathei mathos»: attraverso la sofferenza si raggiunge la saggezza. Noi cristiani sappiamo che, dopo la croce, ci aspetta la risurrezione.

Beethoven vinse tutte le voci interiori che volevano impedirgli di scrivere e di vivere, soffocando la sua creatività: e nel silenzio più assoluto, nella totale solitudine e desolazione interiore, riuscì a trovare la gioia, ad afferrarla, ad esprimerla in un grido di amore per l’umanità e per Dio. Non una gioia superficiale, ma la più profonda scintilla della presenza divina. Papa Benedetto XVI, colto amante della musica, commentò così questa vicenda:

«Mi si affaccia alla mente, in questo contesto, un’espressione misteriosa del profeta Isaia che, parlando di una vittoria della verità e del diritto, diceva: “Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro […]; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno»².

La Nona sinfonia traspone in musica precisamente questo vissuto beethoveniano: a partire dai primissimi accordi del primo movimento, delle quinte vuote (lami) che generano una sensazione di indefinito primordiale, di attesa, cui segue, come l’ordine che nasce dal caos, uno sviluppo cupo e tempestoso. La sinfonia tradizionale prevede solitamente, dopo il primo movimento di carattere veloce, un secondo movimento più lento, cui segue un minuetto (che in Beethoven diventerà lo scherzo), e infine il quarto movimento, nuovamente veloce. Beethoven, questa volta, rompe anche l’ordine classico della sinfonia: dopo il primo movimento veloce inserisce infatti lo scherzo, un velocissimo fugato caratterizzato da un intenso ritmo propulsivo e da un’intensa dinamicità. Segue quindi il lento terzo movimento: di carattere placido, lirico e intensamente meditativo, prepara l’ascoltatore per lo slancio del tanto atteso finale.

Nel finale, come si è detto, fanno il loro ingresso il coro e i solisti. Prima che ciò avvenga, però, Beethoven compie un altro passaggio interessante: l’inizio del quarto movimento ripresenta all’ascoltatore, come per farne memoria, i temi di tutti i movimenti precedenti. In sostanza, è come se il solo quarto movimento fosse una piccola sinfonia all’interno della più grande sinfonia: la microstruttura che riflette in sé la struttura più grande. In questo modo l’ascoltatore è chiamato a sentire dentro di sé con più forza l’intero passaggio dalle tenebre alla luce, dalla sofferenza alla gioia. Il basso afferma quindi con forza le seguenti parole, scritte di pugno da Beethoven in riferimento ai movimenti ascoltati finora: «Amici, non queste note, intoniamone altre più grate e gioiose!»³ che aprono la porta ai versi dell’Ode alla gioia di Friedrich Schiller. Il compositore tedesco aveva manifestato la volontà di musicare le parole di Schiller fin dal 1793, realizzando alcune bozze negli anni successivi. Ma è soltanto in questa sinfonia che il suo progetto, finalmente, prese compimento. Il musicologo Luigi Magnani commenta mirabilmente l’Ode alla Gioia in questo modo⁴:

Quella idea profetica della fondazione del regno di Dio sulla terra tra gli uomini di buona volontà, già auspicata da Kant, Beethoven l’aveva solennemente celebrata nel Finale della Nona Sinfonia, ove si esalta ilregno della fraternità umana, la vittoria dell’uomo su ciò che fisicamente e moralmente l’opprime, la sua vittoria sulla tirannide politica e su quella delle passioni, la sua libertà. Con la Nona Sinfonia è come se egli, anzi la musica, uscisse appunto dall’ambito della esperienza personale dei sentimenti privati per abbracciare una visione più ampia in cui gli ideali non siano vane ombre, soggettivo riflesso dei desideri, ma vengano affermati e riconosciuti come oggettivamente validi. […] S’imponeva pertanto di uscire dal chiuso mondo individuale per entrare in uno più vasto, di ritrovare il mondo comune di chi veglia. Mentre vengono ripudiate le vane immaginazioni metafisiche e i sogni individuali, sorge imperioso il bisogno di reintegrare praticamente quei valori di cui ci viene negato il pieno e convincente possesso ideale. Sarà ora il cuore a dare norma alla ragione, a guidare l’uomo senza incertezza, mediante le leggi morali insite in lui, verso i suoi veri fini. La legge dell’amore stringerà tra loro gli uomini come la legge della gravitazione stringe insieme gli esseri nell’universo fisico, ma secondo un ordine anche più alto e mirabile perché non determinato da cieca necessità bensì da libera elezione.

Per tali motivi, personalmente, non credo che Schiller e Beethoven avrebbero apprezzato la scelta, fatta nel 1972, di adottare l’Ode alla gioia come inno del Consiglio d’Europa prima e dell’Unione Europea poi: con queste parole i due artisti si rivolgevano all’umanità tutta, di ogni tempo e di ogni luogo, in un abbraccio di amore che trascende le istituzioni politiche: legare questa musica a un’istituzione precisa – a prescindere da quali che siano le idee politiche a riguardo – significa fraintendere il messaggio di Beethoven. Inoltre lInno alla gioia da solo, senza cioè l’ascolto precedente di tutti i movimenti della sinfonia, ne sminuisce la bellezza, venendo a mancare tutta l’impalcatura sonora che, come si è detto, prepara l’ascoltatore al finale della sinfonia dopo un lungo viaggio interiore. Ritengo che sia preferibile ascoltare l’Inno alla gioia esclusivamente dopo aver seguito con attenzione i movimenti precedenti: in altre parole, senza separare il finale corale dal resto della sinfonia.

Queste considerazioni a parte, desidero chiudere quest’articolo citando direttamente parte dell’Ode: che queste parole, unite alla musica sublime di Beethoven, possano ispirare giorno dopo giorno, nelle vite di tutti noi, la costruzione di un mondo più giusto, dove possano regnare veramente l’amore, il diritto, la libertà, e la pace: un mondo in cui si realizzi davvero il Regno di Dio: di un Dio che non solo abita sopra le stelle, come afferma il testo, ma che vive dentro di noi, nel più intimo di noi stessi.

[…]
Lieti, come i suoi astri volano
attraverso la volta splendida del cielo,
percorrete, fratelli, la vostra strada,
gioiosi, come un eroe verso la vittoria.


Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!
[…]

  1. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 (L’artista ed il bene comune), Vaticano, 4 aprile 1999.
  2. Cfr. Is 29,18-24. Citazione tratta da: J. Ratzinger, Lodate Dio con arte, Marcianum Press, Venezia 2010, 25 (La Nona sinfonia di Beethoven).
  3. Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia, Auditorium Parco della Musica (Roma), 26 aprile 2008.
  4. L. Magnani, Beethoven nei suoi quaderni di conversazione, Laterza, Bari 1970, pp. 137-138.