di Maria Maddalena Gussoni OSA

Recentemente, facendo una visita in ospedale, mi è capitato di passare accanto a una stanza in cui alcune donne in gravidanza facevano un tracciato. Il battito del cuore dei loro bimbi rimbombava nel corridoio riempiendo di stupore inesperti e addetti ai lavori: la vita ha un ritmo. Cuore, respiro, ciclo sonno/veglia, cicli ormonali più o meno lunghi. La vita ha un ritmo. Tutti gli organismi, dai più semplici ai più complessi, sono capaci di organizzare i loro processi non solo in senso spaziale, ma anche temporale e sono, quindi, in grado di scandire il tempo. Questa periodicità ha un’origine interna agli organismi stessi e non riguarda soltanto l'uomo, ma tutti gli animali e le piante; non richiede necessariamente un cervello ed è espressa non solo dalle cellule, ma anche da singole molecole. Il creato e il cosmo intero hanno un ritmo. Nel quarto giorno della Creazione Dio crea “fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; [perché] siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni” (Gen 1,14; Cfr. anche Sal 104,19). Creando ciò che lo scandisce, Dio sta creando il tempo e con esso il ritmo del cosmo.
La nostra vita è scandita da due movimenti: il tempo scorre in una direzione, ma non possiamo pensare di vivere su una linea retta, unicamente incamminati verso un punto; la nostra vita – come dicevamo – è, infatti, anche costellata di movimenti periodici. Se è vero che “c’è un tempo per ogni cosa” (Cfr. Qo 3) nel senso che alcune cose riguardano prettamente alcune fasi della vita, è vero anche che “c’è un tempo per ogni cosa” (Cfr. Qo 3) nel senso che c’è un ritmo per ogni cosa ed è proprio questo ritmo a rivelarne l’equilibrio e la bellezza. Non sono sufficienti le note eseguite dagli strumenti di un’orchestra per creare una bella armonia: serve un ritmo, perché “Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo” (Qo 3,11). È dentro questo dinamismo che la vita nasce e prende forma. Così è anche della Vita di Dio, che necessita di
un terreno in cui sbocciare. Non possiamo pensare alla vita spirituale come a qualcosa di disincarnato. La nostra relazione con Dio ha bisogno di inserirsi in questo ritmo, perché solo dentro la dinamica della vita ordinaria può assumere concretezza. Se la preghiera assume un ritmo, allora entra nella vita. Non si tratta di sottomettersi a regole folli, che abbandoneremmo in breve tempo perché impossibili da sostenere, ma di trovare il proprio passo. Di creare degli appuntamenti per gustare un incontro (Cfr. Sal 34,9). In questo ci è maestra la volpe del Piccolo Principe.

«Chi sei?» chiese il piccolo principe. «Sei molto graziosa…»
«Sono una volpe» disse la volpe.
«Vieni a giocare con me» le propose il piccolo principe. «Sono così triste…»
«Non posso giocare con te» disse la volpe. «Non sono addomesticata.»
«Oh, scusa!» fece il piccolo principe.
Ma poi ci ripensò e aggiunse: «Che cosa vuol dire “addomesticare”?».
«È una cosa caduta in disuso» disse la volpe. «Vuol dire “creare legami”… » […]
«Come si fa?» domandò il piccolo principe.
«Ci vuole molta pazienza» rispose la volpe. «In un primo momento tu ti sederai a una cera distanza da me,
così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai niente. Il linguaggio è fonte di malintesi.
Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…»
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
«Sarebbe stato meglio tornare alla stessa ora» disse la volpe. «Se per esempio vieni alle quattro del
pomeriggio, io dalle tre comincerò ad essere felice. Più passerà il tempo, più io sarò felice. Alle quattro,

comincerò già ad agitarmi e preoccuparmi: scoprirò il valore della felicità! Ma se vieni quando ti salta, non
saprò mai a che ora agghindarmi il cuore… Abbiamo bisogno di riti».
«Che cos’è un “rito”?» chiese il piccolo principe.
«Un’altra cosa caduta in disuso» disse la volpe.
«È ciò che rende un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore.» 2

Dalla frammentazione all’unità
La vita va ritmata con sapienza. È necessario imparare ad alternare i tempi del silenzio e della parola, dell’operare e del pregare, del movimento e dello stare fermi, dell’abitare una solitudine visitata dal Signore e del ricevere la visita dell’ospite. Se nella vita non c’è alternanza delle attività, si finisce per dare troppo potere a una sola di esse.

Secondo la volontà di Dio ogni giornata del cristiano è caratterizzata da un duplice aspetto, quello della preghiera e quello del lavoro. La preghiera non deve essere ostacolata dal lavoro, ma neppure il lavoro dalla preghiera. È necessario che ognuno dei due aspetti sia riconosciuto nei diritti che gli spettano senza restrizioni, e in tal modo si capirò chiaramente anche il loro legame.(3)

Quello che Bonhoeffer dice con tanta forza e chiarezza riguardo al lavoro, può essere senza dubbio esteso a diversi aspetti della vita e, in particolare, allo studio, che per molti – in un determinato tempo – costituisce un lavoro. Il rischio è quello di “perdere il ritmo”,  edicando giorni interi allo studio, mettendo da parte tutto il resto, per accumulare contenuti – in maniera quasi bulimica – senza dare loro il tempo di entrare in relazione con la nostra vita. Per poi invertire le parti: abbandonare lo studio per lunghi tempi, se non per tutta la vita quando sopraggiunge il tempo del lavoro. Abbiamo già visto che il ritmo richiama a un equilibrio, a un’armonia che è bellezza, perché
favorisce i legami. Quando parliamo di “legami”, però, non possiamo limitarci a considerare le relazioni tra le persone, ma dobbiamo ampliare l’orizzonte per considerare le relazioni che sussistono tra le diverse dimensioni della nostra vita, altrimenti rischiamo di viverle a compartimenti stagni. Come se lo studio, la vita spirituale, il lavoro e le nostre relazioni interpersonali fossero dimensioni slegate l’una dall’altra. Vivere dentro a un ritmo tutte queste dimensioni permette, invece, che nessuna di esse venga assolutizzata e che tutte assumano, invece, il peso e lo spazio giusto nella nostra vita. Questo fa sì che queste diverse dimensioni possano dialogare tra loro e nutrirsi l’una l’altra. Conducendo, gradualmente, le nostre giornate e la nostra vita dalla frammentazione all’unità. Sembra un paradosso.
È bello, invece, scoprire che quello che studiamo, le persone che incontriamo, la fatica del nostro lavoro potranno entrare a far parte della nostra preghiera e – viceversa – che la preghiera potrà accompagnare ogni nostra attività se la vivremo alla presenza di Dio, ricordando con semplicità e gratitudine chi ci ha donato la vita anche in quel giorno. Così ogni parola, ogni opera, ogni fatica si trasformano in preghiera e tutto può essere ricondotto all’unità.

Dallo studio alla formazione
Inserire lo studio in questo dinamismo della vita mette necessariamente in discussione le motivazioni che lo accompagnano. Spesso lo studio è sostenuto da dinamiche di competizione e affermazione di sé. Spesso è votato alla ricerca di ottimi risultati perché sia utile per un buon
curriculum.

È necessario chiedersi come lo studio possa essere evangelizzato. È possibile vivere lo studio con impegno e serietà, liberandosi delle dinamiche di cui parlavamo poco fa? Quale motore può spingerci in questa direzione? S. Agostino, fondatore di comunità monastiche, ha chiaro che ciò che muove il monaco in ogni attività deve essere la ricerca del bene comune e questo emerge con molta chiarezza dalla regola. In essa, del lavoro dice così:

Nessuna faccia le cose per sé, ma lavorate sempre per il bene di tutta la Comunità; anzi quanto più l’interesse è comune, tanto più metteteci entusiasmo e sollecitudine. L’amore – dice la Scrittura – non va in cerca del proprio interesse e questo significa che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Perciò, quanto più vi prenderete cura delle cose della Comunità, tanto più vi accorgerete del vostro progresso nel cammino spirituale.(4)

Questa ricerca del bene comune è lo spirito sotteso a tutta la regola ed è semplicemente disarmante. Di nuovo, mi prendo la libertà di estendere quanto è detto del lavoro alla dimensione dello studio. Se permettiamo che, come già dicevamo, le diverse dimensioni della nostra vita entrino in dialogo tra loro – diventando semplicemente la nostra vita – allora sarà possibile mettere a servizio della nostra comunità la nostra fatica, qualunque essa sia. Studiare e formarsi in modo autentico significa mettersi in discussione, aprirsi al dialogo e lasciarci
scalfire dalla parola dell’altro. Studiare non è riempirci di contenuti, ma lasciarci raggiungere e plasmare da ciò che conosciamo. Coltivare questa modalità di formazione ci cambia come persone, perché cambia il nostro modo di pensare e di agire e questo ha sempre una ricaduta sulle nostre relazioni e sui luoghi nei quali siamo chiamati a spenderci.

1 Cfr. Qo 3,11.

2 A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe, BUR 2016, pp. 104-108.

3 Cfr. D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana 2003, p. 53.

4 Agostino, Regola, 31.