Se il seme caduto in terra deve, per portare frutto, morire

di Pietro Buoso
FUCINO DEL GRUPPO P.G. FRASSATI DI TORINO E STUDENTE DI LETTERE ANTICHE E MEDIEVALI.

Se il seme caduto in terra deve per portare frutto morire, gli uomini e le donne che si sono fatti volto e mani
della FUCI negli ultimi tre anni hanno seminato il miracolo. La vocazione fucina contiene in sé l’amarezza di
un termine, improrogabilmente fissato, che come una ghigliottina mozza l’intenso, umanamente eterno
cordone affettivo che per quello sputo di anni su cui si spande lega i suoi membri al suo seno. Come la
Compagnia dell’Anello nell’opera di Tolkien, la Fuci è per noi che l’abitiamo un breve capitolo, e siamo
chiamati a venire e andarcene in fretta dal nostro raccontarlo, eppure allo stesso modo amicizia e amore la
legano eternamente. I tre giorni vissuti in questi Stati Generali sono stati belli, non come li chiama il mondo
ma come li chiamano i mistici. Belli cioè non perché leggeri e gioiosi, sebbene gioia e leggerezza vi siano
stati, ma perché spiritualmente intensi, cristiani nel più intimo senso della parola. Mai, come in questi tre
giorni, la chiara consapevolezza di consumare le mie mani in un’opera che non vedrò fiorire, la santa
tristezza di cui essa è intrisa e la sacra leggerezza che ispira hanno invaso, sconvolto e in ultimo accarezzato
il mio cuore.
Mai come ora il peso di un sentimento di rinuncia che impernia in sé il coraggio, e l’entusiasmo di fissare la
strada d’innanzi a noi, ha gravato le mie spalle.
Se il segretario Di Gangi ci ha chiesto di non sentire il peso del confronto riguardo ai fucini che ci hanno
preceduto, pure non può né alcun uomo vivente può chiederci di non sentire pulsare la commozione, che non
è vuota nostalgia ma fraterno patire-insieme, in senso latino, e cioè reggere, vivere, soffrire eppure
sopportare il peso di un sentimento forte quanto il più forte che il nostro animo possa reggere e che la nostra
lingua sappia nominare. La commozione, viva e vivificante, che sprigiona dal resistere dell’uomo all’abisso
della sua mortalità. Siamo qui oggi perché qualcuno ha vissuto, lottato e mollato in passato, lasciandoci in
eredità la Fuci, e se quel qualcuno ha pianto noi rivendichiamo quelle lacrime, le facciamo nostre, bagnamo
in esse i nostri occhi. E la Fuci è viva, non come è vivo il mondo ma come è vivo il sentimento religioso,
nella sua più intima e primitiva essenza, nel suo legare insieme, nel suo distruggere l’individualità nel suo
schiacciare la solitudine. Si è detto che la Fuci ha il compito di formare, ma nessuna esperienza mistica
forma in senso umano perché nessuna esperienza mistica tiene conto del tempo, del divenire, nel misticismo
il momento è eterno, ha valore di per sé, e ha valore infinito. Il me che lascio in Fuci, che trovo in Fuci, che
cerco in Fuci non è solo formare il me di domani è l’esistere, oggi, qui, e quando lascerò la Fuci morirà a me
quel mio me stesso che le è legato, e sulla promessa di Cristo, se la nostra Fede è vera e ne siamo stati degni,
sgorgherà vita da quella morte che il mondo non noterà. Mi soffermo sulla Fuci che è qui e ora, che è stata
ieri e allora, perché si è parlato abbastanza di futuro perché possa fermarmi all’attimo e donare a chi non ha
vissuto un sussurro di ciò che la Fuci è. Perché è nei momenti senza tempo che s’incontra Dio, negli abbracci
dati per scherzo, che per scherzo non sono, nelle lacrime di rito che di rito non sono, nei saluti di convenevoli
che convenevoli non sono. Perché in Fuci è vero, dall’ultimo bicchiere di Laurus alla prima e più alta delle
preghiere. È reale questa nostalgia, è reale questa tristezza, è reale questa forza, questo entusiasmo, questa
mano che scrive, anche essa e Fuci!
Il lavoro burocratico è lo scheletro, io voglio parlare delle ossa e dei muscoli, della carne e della pelle, che in
Fuci è rigogliosa e che in Fuci sanguina, ma che in Fuci esiste, e si esprime nella libertà, nell’onestà di
coscienza, perché sentimenti così alti e così nobile non nascono dai riti né dalle formule, nascono quando
qualcuno mette davvero il cuore accanto al cuore di un altro. E in Fuci questo avviene, avviene anche quando
è il momento di lasciare, e si arriva ai saluti e ai momenti di addio, ma si resta. È stato detto che la Fuci ha
duecento cinquanta membri. Non è vero, noi siamo milioni, i milioni che non se ne sono mai andati, e che
vivono in noi, e che sono la nostra segreta forza davanti al Nulla.