Lettera a un universitario

di don Roberto Regoli, assistente ecclesiastico nazionale della FUCI

Caro Fucino e cara Fucina,
in questi mesi si è spesso parlato del disagio giovanile nell’Università. Lo
sappiamo bene, però, che si tratta di una problematica più vasta. Non ha a che
fare con l’istituzione Università o con le diverse istituzioni educative, quanto con
una condizione esistenziale diffusa. Sempre più giovani (studenti delle scuole e
dell’Università, come anche lavoratori) non riescono a trovarsi a proprio agio con
la vita. Hanno un male dentro, qualcosa che rode, che non li fa sentire a casa e
che a volte li spinge fino al gesto estremo del suicidio, senza riuscire a sentire
l’amore di chi li ama o pensare al pianto di chi ne sentirà la mancanza, al dolore di
chi sarà straziato dalla cesura violenta.
Gli esperti ci possono parlare della fragilità giovanile. Ed è vero. Ci possono
indicare l’incapacità di non pochi giovani a farsi carico del fallimento. Ed è vero.
Ci diranno anche dell’obnubilamento della distinzione tra fallimento ed essere
fallito. Ed è vero pure questo. Ma tutto ciò non basta. Rimane la domanda perché
quella bella vita giovanile non abbia trovato la pace che viene da Cristo. Qui non
si vuole parlare di psicologia e medicina. Sappiamo che nel linguaggio biblico
paolino quando si parla della creatura umana si distinguono corpo, anima e
spirito. Io vorrei parlare solo della parte relativa allo spirito, che è base e sostegno
di tutto il resto.
Bisogna riconsiderare e riproporre la vita spirituale. Ogni volta che sento
parlare di giovani con questa sofferenza interiore radicale, di cui in fondo non si
capisce tanto l’origine e non sempre si trovano le soluzioni adeguate, vado con la
memoria della fede alle parole di Gesù: “Io sono venuto perché abbiano la vita e
l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Ed ancora: “Questo vi ho detto, perché la
mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Sono prospettive
affascinanti. Ma come raggiungerle? Innanzitutto, la spiritualità cristiana ci fa
sapere che questo tipo di vita non è una conquista. Non segue la logica del
successo o del fallimento. Gesù, infatti, ci chiede poco per realizzarla. Sì, perché
quella vita ci viene data. È questione di saper ricevere il dono e nient’altro. Dio è
generoso e continua a riprovare a darci questa vita anche quando da noi può
essere stata rifiutata. Dio è fedele: “questa è la volontà di colui che mi ha
mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo resusciti
nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il

Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv
6,37ss). La prospettiva della vita eterna è allettante: sapere che la morte non ha
l’ultima parola mi pacifica, scarica dai pesi inutili, di troppo.
Tutti noi riconosciamo la verità e la bellezza di questa vita abbondante e
gioiosa, che stride con una vita sottomessa agli eccessi anestetizzanti del
week-end e alla paura di vivere, a quella che può essere percepita come la
condanna a dover decidere. La vita abbondante è la vita piena di Cristo. Il
giovane universitario cattolico sente, come tutti gli uomini e le donne,
l’attrazione verso la pienezza della vita, che non porta alla lacerazione, bensì ad
una forte interiorità spirituale. La vita non diviene abisso di perdizione solo nel
momento in cui al centro della spiritualità del credente vi è Cristo, con la sua
assolutezza. Cristo conosciuto ed “imparato” nella Chiesa, massimamente nella
comunitaria liturgia eucaristica. Ad un giovane non basta solo essere di pensiero,
non basta avere familiari amabili e amici impagabili. Ha bisogno della vita
interiore, che si fa preghiera. La sovrabbondanza della vita passa per la pienezza
della fede. Perché anche la vita più misera e penosa, confidando in Dio secondo la
parabola del Figliol prodigo (o del Padre misericordioso), può tornare a
germogliare. Il fallimento può essere la porta della resurrezione.
La fede tocca la singola esistenza e allora non si ha paura della verità: degli
esami andati male, delle delusioni affettive, del non essere accettati dagli altri,
dall’essere scartati o del semplice fatto di non sentirsi all’altezza. La verità
affrontata con Cristo, le pieghe e le piaghe più imbarazzanti della vita illuminate
da Cristo non sono dei mostri imbattibili. Se Cristo mi tiene per mano e se io
tengo la sua, non ho più paura di nulla e nessuno. Cristo e la compagnia dei suoi
amici, la Chiesa, possono essere degli incontri di redenzione.
In fondo, tutto chiede salvezza e quest’ultima ha un volto, bello, quello di
Cristo. Allora il consiglio pratico di una vita interiore di preghiera: l’ascolto della
Sacra Scrittura perché Dio lì mi parla, l’incoraggiamento alla partecipazione
all’eucarestia (anche quotidiana) perché lì l’amore si fa carne, l’adorazione
eucaristica perché lì ci guardiamo negli occhi, la recita del rosario come una
preghiera ritmica del cuore, l’esame di coscienza quotidiano perché si può
affrontare la profondità del proprio cuore con Cristo senza spaventarsi. Sono
questi incontri che mi rinnovano. E in questi incontri si possono coinvolgere
anche altri amici. Anche quelli che hanno un grande male dentro. Perché Cristo
vuole abbracciarli e dirgli: “Pace a te”.