Make peace not war

Siamo indignati, preoccupati, dispiaciuti, allarmati per il perpetrarsi dei conflitti armati, prima in Ucraina e poi a Gaza – mentre altre ingiustizie e violenze pesanti fanno meno rumore. Siamo in fermento, sinceramente commossi e desiderosi di veder cessare gli scontri perché possa farsi spazio la ricerca attiva di un equilibrio più umano. Però per lo più restiamo con le mani in mano. E ci chiediamo cosa possiamo fare. Così come la guerra, anche la pace si “fa”. Non nasce spontaneamente dall’assenza di conflitto, né può essere mantenuta attraverso il rinforzo di muri e frontiere divisorie, invocando una “sicurezza” che è solo presunta: “fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. […] Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare
illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire” (Esort. ap. Evangelii gaudium, 59). L’ingiustizia strutturale della nostra società la rende intrinsecamente fragile, cioè incapace di proteggere e sostenere il progresso umano, culturale e sociale dagli scossoni e crolli che questa riceve continuamente in nome del progresso economico di pochi. Da questo non ci possiamo aspettare un futuro migliore, non sono queste le condizioni per uno sviluppo sostenibile e pacifico. Già sessant’anni fa Papa Giovanni XXIII con l’Enciclica Pacem in terris descrisse i quattro pilastri della pace: la verità, la giustizia, l’amore (solidarietà), la libertà. Non una verità ideologica che motiva le fazioni, bensì quella dell’umanità e dignità di ogni persona; una giustizia che non sia egoistica; una libertà non solo in senso negativo (“da” qualcosa) ma anche positivo (liberi “di”…); un amore che sia solidarietà. Oggi aggiungeremmo un amore capace di misericordia, vedendo l’aridità che genera
l’inabitudine al perdono, e una giustizia che sia dialogo, incontro riparativo, come abbiamo avuto modo di riflettere ampiamente lo scorso anno accademico, che in FUCI abbiamo dedicato proprio al tema del rapporto tra pace e giustizia (“DiRITTI alla Pace”). Più recentemente, ma sempre restando in tema di anniversari, dieci anni fa Papa Francesco, con la pubblicazione dell’Enciclica Evangeli gaudium (24 novembre 2023), denunciò pubblicamente che i “meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti.” (EG, 60). Inoltre, “alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi” (ibid.), oppure nel tentativo fallimentare di tenerli con ogni mezzo lontani dalle proprie frontiere, affidandosi a sistemi di sfruttamento criminali senza scomporsi. “Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti” (ibid.), continua ancora l’esortazione del Papa. Ed ecco che di nuovo ci accorgiamo che la giustizia è intrinsecamente connessa con la pace, e non possono esistere l’una senza l’altra.

E noi, che ci diciamo cristiani, siamo quindi “operatori di pace”? Altrimenti non siamo riconoscibili come figli di Dio. Siamo “poveri in spirito” e vicini a chi è “perseguitato per causa della giustizia”? Altrimenti non siamo fratelli, non condividiamo con loro il regno di Dio. Come possiamo imparare ad essere “operatori di pace”? per puntare all’orizzonte della comunione pur nelle tante differenze, possiamo partire dal mettere al centro ciò che ci accomunajk: la dignità di ogni persona. Questo criterio è tanto evangelico quanto umano. Non si tratta di eliminare le differenze, quanto di vedere nella varietà anche ciò che avvicina. “La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. “(EG, 228) in cui la risoluzione su di un piano superiore comunque conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto. Sarebbe ingenuo e persino fuorviante puntare a risolvere la conflittualità annullandola. Possiamo invece cogliere la sfida di riconoscere le diversità costitutive della società e sulla base di questa molteplicità promuovere una convivenza fraterna che riconosca il primato dell’insieme sugli interessi di parte e potenzi il dialogo come strumento di gestione delle controversie, che alimenti la speranza che la pace è possibile e il coraggio di renderla reale.