Cammini di conversione:
intervista a Giuseppe Notarstefano* e Clara Pomoni**
a cura di Stefano Pignataro
Laureato in filologia moderna, giornalista e
presidente del gruppo FUCI di Salerno.
Papa Francesco ha definito il processo sinodale una delle «più preziose eredit໹ del Concilio. Quali sono le caratteristiche che pongono in particolare continuità queste due esperienze?
G.N.: Concordo su questa prospettiva. Abbiamo da un lato una partecipazione al Sinodo dei vescovi che ha una prospettiva universale, una dinamica di coinvolgimento che prevede un ascolto dal basso e che mette a tema la Sinodalità come postura essenziale del cammino della Chiesa.
Dall’altro tutto ciò si intreccia con il cammino voluto dallo stesso papa Francesco quando, al convegno di Firenze, ha chiesto a tutti di mettersi a servizio nella Chiesa italiana secondo quella conversione pastorale che aveva descritto in quel potentissimo strumento che è Evangelii gaudium, debitore di Evangelii nuntiandi e che qualcuno ha definito una specie di “software di installazione” del Concilio. Il Concilio ha significato proprio questo, una Chiesa che si è messa in cammino guardando con cordialità al tempo che stiamo vivendo. I punti di contatto tra la stagione del Sinodo e quella del Concilio sono molteplici: anzitutto direi la pastoralità voluta da Giovanni XXIII, che aveva in mente un Concilio che non fosse soltanto dogmatico bensì un gesto di amore verso il Signore e verso l’uomo. Un Concilio che non “evadesse” i problemi della modernità. Non è solamente un problema di elaborazione teorica, ma ancor di più di accompagnamento e di cura. Una cura della vita buona delle persone, e che pertanto non può fare a meno del rapporto con il Signore.
L’altro aspetto è quello dell’universalità: un progetto ampio, che ci offre il senso di una Chiesa come un popolo che cammina nella storia e che ha una grande diffusione in tutte le parti del pianeta, con intensità e realtà diverse, e una comune dimensione universale.
C.P.: Innanzitutto, ricordiamo che il sinodo che conosciamo noi oggi è direttamente figlio del Concilio Vaticano II, perché è proprio da lì che papa Paolo VI istituì il “sinodo dei vescovi”, con la funzione di rappresentare tutti i vescovi del mondo e affiancare il pontefice nel suo magistero.
Il sinodo 2021-24, invece, “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”, per la prima volta non si sta svolgendo solo in Vaticano, ma in ciascuna Chiesa particolare dei cinque continenti. E così lo stile sinodale che qualifica la missione della Chiesa sin dalle prime comunità cristiane, che dovrebbe essere espresso nel modo ordinario di vivere e lavorare della Chiesa, è messo a tema.
Se il Concilio ha generato numerosi documenti magisteriali, lo scopo del Sinodo attuale non è quello di produrre dei testi, bensì di fare insieme un’esperienza profonda di sinodalità, perché possa divenire sempre più il nostro modus operandi, uno stile ordinario della vita ecclesiale. Si vuole così alimentare nella Chiesa un moto che continui a propagarsi, in una dialettica tra apertura alla modernità e sguardo critico sul mondo, interrogando evangelicamente lo sviluppo generato dal progredire della nostra società.
Visto che la recezione del magistero conciliare e la sua viva appropriazione è un processo tuttora in atto, secondo la vostra esperienza di Chiesa, quali sono i passi che abbiamo compiuto e quelli che più sono urgenti?
C.P.: Il riconoscere la necessità di operare una conversione continua, a livello personale e comunitario, a partire dal contatto diretto con la Parola, è uno stile fondamentale che stiamo imparando sempre più: tornare e ritornare alla scrittura, per attuare ogni volta un po’ di più il messaggio autentico, sempre originale e vivo, del Vangelo.
Questo “di più” è lo sprone che ci spinge, e orienta il cambiamento in un senso preciso. Infatti, non basta camminare per il gusto di stare in movimento, se ci allontaniamo dalla nostra missione evangelica.
Per questo, la formazione dei laici che caratterizza l’attività delle nostre associazioni fin dalla fondazione, nel post-Concilio ha preso nuovo slancio. Attraverso l’esperienza della fraternità e la comprensione dell’essenza personale del messaggio di salvezza, la scelta della vita cristiana è più consapevole e autentica dell’adesione per tradizione.
In parallelo però siamo chiamati a rivalutare la tradizione senza cadere nella tentazione di “rottamarla” in toto, ma piuttosto rispolverandola per custodirne la preziosità, e trovare nuovi significati o nuove forme, ma consapevoli che il messaggio cristiano fondamentale è perpetuo e si realizza incarnandosi costantemente nell’oggi.
G.N.: «Ecclesia semper reformanda». In questa frase vi è un contenuto molto profondo: una Chiesa che si mette in cammino e che cerca un dialogo con tutti, sapendo che ci sono passi e percorsi diversi da far convergere, sincronizzare e tenere insieme con gradualità. Un desiderio di cambiamento che deve essere sempre vivo e che ci deve far perennemente guardare con gratitudine alla realtà della Chiesa, in Italia e nel mondo, e di cui l’Azione Cattolica, La FUCI ed il MEIC sono espressione.
Un’idea, questa, di Vittorio Bachelet, il quale per primo comprese che un rinnovamento dell’Azione Cattolica era necessario non nell’ottica di fornire piccoli aggiustamenti organizzativi, ma affinché imparassimo di più a sentire con la Chiesa. Oggi abbiamo un’esigenza di accelerare il passo sualcuni sentieri come la presenza e la responsabilità dei laici.
Questo è un punto essenziale: che il tempo del Sinodo possa essere occasione per proseguire con coraggio nel riconoscimento di una laicità che caratterizza tutta la Chiesa. Un’altra urgenza è riconoscere l’importanza della presenza delle donne nella Chiesa: proprio in questi mesi abbiamo riscoperto in particolare la figura straordinaria di Armida Barelli, di grande modernità ed esempio.
Un altro tema importante è la costruzione del bene e la custodia del bene comune, della politica e della fraternità universale. La politica, del resto, è un tema scottante perché molto spesso si affronta in modi preconciliari. Occorre, invece, guardare alla Chiesa nel mondo e ai laici che sono immersi nella vita per loro vocazione e aiutano la Chiesa a esprimere uno stile di annuncio, di presenza, di speranza, di evangelizzazione con la capacità di generare cultura attraverso questa vita ispirata, con tutti. L’Azione Cattolica ha il dovere di offrire dei percorsi di ricerca condivisa e di sperimentazione.
C.P.: Una sfida che il Sinodo lancia alla Chiesa, riprendendo la dinamica conciliare, è proprio sulla concezione del potere all’interno della gerarchia ecclesiale e delle comunità cristiane. Nella FUCI sperimentiamo una forma di organizzazione ecclesiale che prova ad essere democratica, mentre nel sinodo la partecipazione di tutti e l’ascolto di ciascuno superano anche la dinamica di maggioranza e minoranze, perché si punta alla comunione.
E questo è un grande sprone innanzitutto per l’organizzazione ecclesiale, ma può esserlo anche per le nostre istituzioni democratiche, statali e non.
G.N.: Una democrazia che sia di tutti, dialogante e inclusiva è ciò che vogliamo. Essa non è solo forma, meccanismi e regole che favoriscono la ricerca di soluzioni di problemi condivisi, ma è presidio di uno spazio comune in cui ci possa essere ospitalità per tutti. Un tema davvero prezioso per il Sinodo. Sta a noi capire quali possono essere dei punti di contatto tra questi due piani di ricerca.
Secondo Papa Giovanni Paoli II, il Concilio è stato «la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX»². Qual è, secondo voi, questa Grazia?
G.N.: La Grazia è stata quella di una Chiesa che guarda al suo Signore, di aver riscoperto il primato della Fede. L’intuizione della scelta religiosa, una scelta che per molti aspetti non è stata compresa e tante volte fraintesa. Una scelta che non è di separazione o di estraneazione, ma di profondità e di riconoscimento del primato del Signore e della sua presenza vivente. «Il Signore ci cammina davanti», come afferma papa Francesco nell’ Evangelii gaudium. Un grande elemento di grazia è stato quello di aver aiutato la Chiesa a riscoprire la sua autenticità grazie anche agli straordinari papi del XX secolo. A discapito degli scandali, che ci saranno sempre e che continuano ad aleggiare nella vita della Chiesa, vi è un percorso di santità e di autenticità della gente che vuole una Chiesa evangelica e povera accanto agli ultimi.
C.P.: Tanti sono i doni di grazia seminati che cominciano a germogliare e stanno già anche dando frutto. Ne è un esempio il dialogo interreligioso, che cambia lo stile con cui ci sentiamo credenti: l’essere in ricerca insieme ci avvicina e ci fa confrontare tra lingue, paesi e religioni diverse.
Proprio da questi incontri a volte nasce in noi giovani l’esigenza di una formazione teologica specifica, per avere più consapevolezza del significato dei fondamenti della nostra fede.
Questa visione della Chiesa è frutto del Concilio, e riconosce una realtà che, in Italia, da istituzione maggioritaria iniziava allora a sentirsi minoranza, e in altre parti del mondo stava prendendo slancio dall’entrare in dialogo con le culture locali. Nel corso degli ultimi sessant’anni possiamo dire che anche la Chiesa si è globalizzata: così come con la conquista dell’indipendenza da parte di molti stati, specialmente in Africa e in Asia, le culture non europee e le religioni non cristiane esigevano un riconoscimento e un posto nei nuovi scenari mondiali, allo stesso tempo si faceva ogni giorno più evidente il nuovo volto della Chiesa, un volto con diversi colori per il nascere e il crescere delle Chiese dei vari continenti.
Questa missionarietà, sempre più reciproca, è caratteristica permanente dell’operato ecclesiale: sta a noi trovare continuamente nuove frontiere da avvicinare, vecchi muri da abbattere.
Quali direzioni di adesione più autentica allo spirito evangelico possiamo riscontrare nello specifico dell’ambito associativo e in particolare per quanto riguarda l’AC e la FUCI? E in quali aspetti facciamo più fatica a convertire il nostro modo di pensare e operare?
G.N.: Abbiamo bisogno di conversione. Il tempo della pandemia ci ha aiutato a comprendere che dobbiamo scommettere sulla cura delle persone. Il papa, in un discorso ai giovani, ha detto che non è tempo di riunioni e convegni, ma della cura degli altri. È ben comprensibile che ciò è fondamentale e lo sarà sempre, perché le relazioni sono alla base. Occorre una conversione che sia anche un ripensamento del modo di pensare e di vivere la nostra vita associativa, che non può essere limitata alla convocazione di persona a eventi, ma deve offrire cammini condivisi e partecipati di ricerca. I giovani, in particolare, vivono le sfide della precarietà e della mancanza di relazione stabili in un tempo di estrema mobilità. In più, l’impegno per il bene comune richiede un’ulteriore conversione. Occorre alimentare le alleanze e non essere autoreferenziali, non soltanto in progetti e iniziative, ma nel valore del riconoscimento dell’altro. L’alleanza è molto di più di una partnership, o un generico “fare rete”, ma è riconoscere il valore dell’altro per quello che è. Occorre farlo ovunque, lavorando anche nei territori dove ci possiamo esprimere attraverso forme di fraternità e di cooperazione. Una comunità è capace di camminare arricchendosi del contributo di tutti. L’esatto opposto di un individualismo che ci vede chiusi in un angolo a difendere quello che abbiamo.
C.P.: Le nostre associazioni ci accompagnano a formarci a una continua conversione e inculturazione del Vangelo, insegnando ad essere cristiani sempre, davvero, ad amalgamare la vita con la ricerca di Dio e la significazione del sapere con un’ermeneutica illuminata dalla fede. Questo ci dà un modello per la pienezza della vita umana, ma riconosciamo che i presupposti impliciti o espliciti su cui si fonda la nostra società ne sono spesso lontani. Vedo poi la fatica in particolare della FUCI che desidera essere progressista e promotrice di un cambiamento nella Chiesa, ma allo stesso tempo si preoccupa che la direzione dell’aggiornamento sia sempre autenticamente evangelica, cercando di comprendere il senso di quelle norme e atteggiamenti che sembrano ormai superati o superabili, senza rifiutarvi delle critiche. Mi sento di dire che il nostro impegno per promuovere la partecipazione attiva dei laici e in particolare dei giovani, uomini e donne in egual misura, educandoci alla corresponsabilità, chiedendo e realizzando spazi di accoglienza per le minoranze è uno sprone per la Chiesa. Invece, il confronto con chi non ha esperienza di associazionismo o una formazione di iniziazione cristiana alle spalle è una sfida per la FUCI, chiamata a uscire dalla propria “zona di comfort”. Parallelamente, stiamo sperimentando il bisogno di una formazione autenticamente cristiana “di base”, che possa aiutare a uscire dall’impasse del confronto tra tante idee di Dio quanti i soggetti che se le costruiscono: questa può essere una nuova frontiera di missionarietà per l’associazionismo cattolico.
Giovanni XXIII parla di quello che sarà un “Concilio di aggiornamento”. Credete che questo “aggiornamento” sia stato oggi recepito?
G.N.: P. Chenu raccontò che durante un incontro, papa Giovanni XXIII, oggi Santo, per rispondere alla domanda del teolgo del perchè di una decisione così importante come la convocazione di un nuovo Coincilio, si alzò dalla sedia per spalancare le finestre per far entrare “una boccata di aria fresca”. Abbiamo bisogno di aggiornamento, di confronto e di dialogo. Sentiamo il rischio di una Chiesa rannicchiata che ha paura, che si difende dai cambiamenti, mentre è chiamata a guardare il tutto con fiducia perché una Chiesa che crede nel Signore morto e risorto non deve avere paura di nulla. Le ansie e le preoccupazioni vi sono, i problemi nazionali e interazioni devono essere affrontati con mediazione e grandi capacità, ma nulla deve turbarci al punto da farci guardare al passato con nostalgia e senza speranza verso il futuro. Questo modus vivendi e operandi non è semplice ottimismo, né un tacere sulle fatiche. Nessuno ha risposte preconfezionate e come detto precedentemente le grandi questioni devono essere affrontate con serietà e competenza. Occorre rifarci alle nostre grandi figure del passato quali, tra le molteplici, Aldo Moro e Alcide De Gasperi che, in circostanze storiche ancora più complesse, ci hanno consegnato una notevole testimonianza.
C.P.: Parlando di “aggiornamento” nella Chiesa in questo periodo sento connettere questa parola per lo più alla necessità sentita di imparare ad abitare i “luoghi virtuali”. D’altronde, come annunciare la parola di Dio oggi? Nell’epoca in cui i social media e il web cominciano a farla da padroni, la comunicazione – anche della fede – adotta progressivamente il linguaggio digitale. Evitando di esaltare o demonizzare questa complessa evoluzione delle reti relazionali, possiamo cogliere la sfida di trovare nuovi mezzi per la pastorale, per operare una più approfondita mediazione dei significati. Declinare l’annuncio della pienezza di vita in un linguaggio attuale lo rende realmente comprensibile a chi ascolta ed evita anche il rischio di farci perdere un patrimonio umanamente prezioso semplicemente perché bannato come tradizionalista e retrogrado.
E questa è un’esigenza che sentiamo in primo luogo noi giovani, che ci interpella e per cui vogliamo impegnarci.
* Presidente nazionale di Azione Cattolica, docente di statistica economica presso la sede di Palermo dell’Università LUMSA.
** Condirettrice di “Ricerca” e responsabile della comunicazione della FUCI, laureata in Psicologia Clinico-dinamica
1. Francesco, Costituzione apostolica Episcopalis communio, 15 settembre 2018, 1.
2. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, 6 gennaio 2001, 57.
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