REALTÀ ESTESE E NOI, LORO ABITANTI
di Stefano Volpe
PRESIDENTE MASCHILE DEL GRUPPO FUCI DI BOLOGNA,
STUDENTE DI INFORMATICA
La futurologia, e cioè la previsione dei prossimi sviluppi della tecnologia e del suo impatto nel quotidiano, è nota per fare cilecca. Alcune invenzioni oggi essenziali furono, ai tempi della loro invenzione, estremamente sottovalutate: «L’automobile è una moda passeggera, una novità del momento, mentre i cavalli continueranno a essere usati da tutti», diceva il presidente della Michigan Savings Bank nel 1903. Gli ambiti di applicazione di altre tecnologie nella vita pratica, al contrario, sono stati enormemente sovrastimati prima del tempo: «Senza dubbio avremo aspirapolveri a energia nucleare entro circa 10 anni», garantiva un CEO del settore nel 1955.
Una breve ricerca in rete vi convincerà che questi non sono casi isolati, né i più comici dell’ambito. Non fatevi ingannare: queste cantonate non sono certo esclusive dell’età contemporanea. Se vi è capitato di studiare un po’ di storia della filosofia alle superiori, di certo conoscerete l’avversione di Socrate per la comunicazione scritta: guai a chi perde le giornate con il naso immerso nella lettura! Quella nefasta attività atrofizza la mente, causa confusione fra realtà e finzione, e scoraggia le persone dal parlarsi faccia a faccia! I giovinastri e le loro diavolerie moderne… Insomma, parlare delle tecnologie del futuro è spesso un fiasco. Sia chiaro, quindi, che quando ci interroghiamo sulla realtà estesa (o XR, da extended reality) stiamo, volenti o nolenti, parlando di presente. Essa include strumenti che hanno già dato prova del proprio impatto sulla vita delle persone: nella fattispecie, la realtà aumentata (AR, augmented reality), responsabile del fenomeno di massa di Pokémon GO del 2016, la realtà virtuale (VR, virtual reality), uno dei tanti mezzi già aperti al pubblico (stra)pagante per fruire del “metaverso” di Zuckerberg, e la realtà mista (MR, mixed reality), che racchiude tutti gli ibridi posti in posizione intermedia fra le precedenti.
Gli esempi di cui sopra sono stati ripresi da una mozione di indirizzo presentata quest’anno dal nostro gruppo. Essa, trattando un argomento in buona parte tecnologico, è stata definita una “mozione di opposizione”, con chiaro rimando al lessico della politica, molto familiare a diversi fra noi fucini. Anche nel nostro caso, il compito dell’opposizione è quello di presentare un’alternativa, e in particolare una strada tematica diversa e meno battuta, che non vuole sostituirsi ai discorsi della maggioranza, ma fornirvi una seconda voce, strumento necessario (anche se non sufficiente) per aprire un dialogo. I mondi della scuola, dell’università, della ricerca e perfino della politica italiane sono spesso quantitativamente e qualitativamente carenti di multidisciplinarietà e interdisciplinarietà. Come studentesse e studenti dell’università, siamo forse fra le più indicate e i più indicati per questo scopo.
Non c’è infatti motivo di lasciare il monopolio di questi argomenti alle ingegnere e agli ingegneri o alle informatiche e agli informatici che attualmente se ne occupano. Le giuriste e i giuristi potranno discutere su come regolamentare la protezione dei dati personali, nonché su cosa dovrebbe o non dovrebbe essere concesso a persone e aziende in questo nuovo contesto. Le filosofe e i filosofi dovranno fornire ai giuristi le basi di etica necessarie, per poi sbizzarrirsi con nuove varianti dell’argomento del cervello nella vasca di Putnam. Si ritroveranno costrette e costretti a rivedere molte teorie di filosofia della conoscenza. Le psicologhe e gli psicologi, quindi, si sentiranno in dovere di portare sul tavolo i propri risultati sulla psicologia cognitiva, ma avranno anche cura di verificare i potenziali effetti della realtà estesa sulla salute emotiva. Le studiose e gli studiosi di statistica, infine, si assicureranno che gli studi citati nelle discussioni siano rilevanti, e che le loro interpretazioni non siano fallaci. E un gioco in cui tutte e tutti portano qualcosa di proprio in campo. Come mai, però, riversarvi tante energie? Interrogarci sugli strumenti che usiamo dice qualcosa su noi stessi. Il modo in cui li usiamo, racconta i nostri scopi. L’entusiasmo che ci travolge per essi parla delle nostre aspirazioni. I timori che proviamo allo scontrarsi con questi mezzi sono memento delle minacce da noi più sentite. Cosa ci affascina della realtà estesa rispetto a quella “analogica”? Quella che inseguiamo è una fuga dal mondo attuale o solo una sua integrazione? Quali aspetti siamo restii ad abbandonare? Perché potremmo o dovremmo essere esitanti nell’abbracciare questo cambiamento? Porsi questi quesiti non significa avvicinarsi all’ennesima moda fantascientifica, ma rispondere a qualche domanda su noi che la abitiamo, sia come individui, sia come società.
Chi invece alle domande profonde preferisce un gesto umano immediato e concreto, sarà felice di scoprire che la dottoressa Melissa Wong, ostetrica e ginecologa di professione, è riuscita, già nel 2020, a concludere con successo uno studio dai risultati più che incoraggianti sull’uso della realtà virtuale per distrarre le sue pazienti dai dolori causati dalle contrazioni del parto. L’effettiva qualità umana delle relazioni instaurate durante una conversazione nella realtà estesa è invece al momento ancora difficile da quantificare: pur esistendo studi precedenti che ne elogiano i benefici specialmente per le persone introverse, essi sono spesso e volentieri sovvenzionati dai grandi marchi interessati a mostrare le proprie tecnologie come tutto fuorché alienanti e distopiche.
La questione rimane quindi aperta, e ridurne la soluzione a una monolitica e monosillabica risposta che marchi la realtà estesa come “buona” o “cattiva” sarebbe a dir poco semplicistico. La giusta strategia sarebbe quindi un approccio destrutturante, che scomponga questa tecnologia nelle sue varie applicazioni per poi esprimere pareri indipendenti su ciascuna di esse. Un lavoro lungo e non banale, sì, ma che è bene sia effettuato prima di ritrovarci polarizzati in una fazione ciecamente tradizionalista e in una ottusamente “tecnomane”.
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