LA CHIESA – CIOÈ I CRISTIANI – E LA PACE
di Enrico Peyretti
ATTIVISTA, GIÀ DOCENTE DI STORIA E FILOSOFIA AL LICEO, RICERCATORE PER LA PACE NEL CENTRO STUDI
“DOMENICO SERENO REGIS” DI TORINO, SEDE DELL’IPRI (ITALIAN PEACE RESEARCH INSTITUTE),
GIÀ PRESIDENTE MASCHILE DELLA FUCI DAL 1959 AL 1961
La Fuci mi fa molto onore col chiedermi un articolo per «Ricerca»: onore e sudore, perché il tema è vasto, e tanto più complesso quanto più vi puntiamo lo sguardo. Onore e dolore, nei giorni della orrenda guerra in Ucraina, che rende più visibile a noi il male assoluto di ogni politica di potenza omicida e delle loro rivalità armate. L’articolo non sarà neppure l’abbozzo di un trattato sul tema, già affrontato da molti ricercatori. Saranno solo alcune annotazioni in una riflessione sempre aperta, forse di qualche utilità ai giovani, perché spremute da ciò che un vecchio ha visto, sentito e vissuto, e ancora vive, dentro di sé.
Il bene della pace, nella sua pienezza, è un bene messianico. Gesù, vittima del potere violento, e risorto a comunicarci il suo spirito, ci chiede e promette pace vera, nella fraternità. Pur attraverso errori e travagli, la pace è una possibilità dell’umanità, se ragionevole e saggia. Perciò, lungo la storia, la pace è missione dei cristiani, insieme a ogni persona di buona volontà. Quale pace? Non solo un’assenza di guerra, che è già un bene, ma la realizzazione positiva della nostra vita insieme, nella pluralità. Non solo una tranquillità personale, per gli affari propri, ma la pace giusta tra i popoli, la pace politica e cosmopolitica, che è l’arte e la scienza di vivere insieme in molti (polis), diversi, ma uguali in dignità. Nel mondo di ieri, i popoli potevano vivere quasi a distanza, senza urtarsi, ma oggi, nei vantaggi come nei pericoli massimi, tutta l’umanità è gomito a gomito, e una sorte unica ci lega tutti, ci piaccia o no. Il bene della pace è un obiettivo da costruire in modo nuovo, a chiare condizioni di saggezza, di virtù morale, di arte politica, educando la capacità psicologica, spirituale e strutturale di affrontare anche le crisi di odio e di violenza, e di guarirle senza restarne invischiati. Quando questo bene irrinunciabile è più minacciato, più offeso, tutta la nostra vita è offesa, e rischiamo la disperazione sull’umanità e sul senso dell’esistenza: è questo che stiamo vivendo ora, durante la guerra in Ucraina (aggiunta alle altre qui da noi, a torto, meno sentite). In questa sofferenza, la fede cristiana non cessa di sperare nel bene della vera pace su questa Terra che Dio ama, e dunque di impegnarsi a fondo.
1. La cultura della pace distingue bene guerra da conflitto. La pace non è assenza di conflitto, e conflitto non è sinonimo di guerra, come spesso nel discorso che confonde. Il conflitto fa parte della vita ed è necessario al suo svolgersi e svilupparsi, perché è l’incontro tra differenze, che può arricchire la realtà. È guerra (sia pubblica che privata) quando il conflitto è gestito in modo violento, distruttivo, cioè mira a eliminare (o fisicamente, o moralmente) l’avversario, il differente. Ogni differenza è scomoda, impegna, può indurre al rifiuto, ma è realtà di vita. Perciò il conflitto non deve essere rimosso o represso, né sedato superficialmente in una pace apparente. Il conflitto gestito in modo distruttivo è la guerra, trasformato in modo costruttivo è il conflitto nonviolento, occasione di maggiore verità per tutti i contendenti¹.
Una pace vera è plurale, non è unità imperiale².
La soluzione del conflitto nonviolento non è mai la vittoria dell’uno sull’altro, ma di entrambi su una situazione meno valida. Non è un vincere, ma un con-vincer-si, vincere insieme una opposizione che priva l’uno dell’altro. Ma non è facile, è impegnativo. Quando preghiamo per la pace, Dio non ci sostituisce, ma ci impegna in questo compito.
2. I cristiani hanno costruito la pace, e hanno anche peccato contro la pace. Forse dipende da quale Dio pensano, e quale Chiesa. Se pensano un Dio potenza sovrana, lontana, imperante e giudicante, che comanda e condanna, ne fanno il modello di rapporti di potere, fino ad autorizzarsi a imporre con violenza ciò che ritengono il bene, il giusto. Quante volte un dio così inteso è stato usato dai cristiani – “Dio lo vuole!”, “Gott mit uns” – come insegna e giustificazione blasfema di violenza umana. Tra le varie intuizioni su Dio nelle religioni umane, Gesù ce lo ha presentato, nella sua stessa persona di uomo pieno dello Spirito divino, come un Padre di amore, materno, misericordioso, che esorta e sospinge al bene, e sempre tutti ci ama, sia giusti, sia peccatori. La legge evangelica chiede molto, di amare anche i nemici, di donare senza attendere restituzione (Lc 6), ma premia con la vita eterna un piccolo atto di bontà, come un bicchier d’acqua dato a chi ha sete. Le immagini terribili, di pena eterna inflitta da Dio, possiamo capire che siano esortazioni serie e gravi avvertimenti, ma non sono la volontà del Padre di Gesù, che non condanna. Non c’è una eterna guerra divina contro i peccatori, l’inferno. L’inferno è stato usato abbondantemente dal potere ecclesiastico per dominare le coscienze, e questa non è pace. Vari teologi pensano che, semmai un uomo morisse rifiutando del tutto ogni minimo atto di bontà e ogni perdono, si condannerebbe da solo al nulla, perché solo l’amore è vita. Dio conosciuto in Gesù, non è violento, non è feroce, perciò non possiamo condannarci tra noi col pretesto di fare come Lui. Sono molto dolorose e vergognose per noi cristiani le immagini di armi ed eserciti benedetti in nome di Dio: dobbiamo profondamente e definitivamente pentirci di questa bestemmia. Insieme a questo peccato, però, non sono mai mancati cristiani che hanno testimoniato la pace, anche con la vita: i martiri della fede che è amore per tutti; gli obiettori che, sotto ogni impero, rifiutano il mandato a uccidere, e disobbediscono, a costo della vita; uomini e donne dedicatisi alla fraternità e alla riconciliazione, come san Francesco che abbandona le armi, attraversa la crociata per incontrare e parlare col “nemico”, riconosciuto umano.
Il Magistero della Chiesa, e la coscienza dei cristiani, almeno da cento anni, sono più chiari sull’antitesi tra Dio e le nostre guerre, tanto più quanto più la Chiesa rinuncia (o è costretta a rinunciare) alla vecchia pretesa di governare le società, invece di starvi come seme e lievito di Vangelo per tutti. Nulla è facile in questo cammino per la pace, anche contrastato. Quando Benedetto XV condannava la guerra 1914-1918 come “inutile strage” (e questa è solo la più famosa delle sue ripetute scelte di pace), trovò opposizioni anche tra cristiani affascinati dall’idolo nazionalista. Il famoso domenicano Sertillanges (lo lessi come un maestro, in gioventù) scrisse: «Santissimo Padre, non possiamo accogliere per un istante i tuoi appelli per la pace» (cfr. Wikipedia). Il Concilio dovette frenare il proprio discorso sulla guerra e la pace, per la pressione dei vescovi americani, quando il card. Spellman (cito a memoria) difese la guerra degli Stati Uniti in Vietnam come difesa anche della civiltà cristiana. Inutile ricordare il grande magistero dei papi da Giovanni XXIII, con la Pacem in terris del 1963 (che contiene quella piena luce: «Bellum alienum a ratione»), ai successivi, fino alla chiarezza profetica di Francesco, in questi giorni di tormento: la guerra è pura follia; è “pazzia” alzare le spese per armamenti; la guerra “giusta” è diventata impossibile perché comporta il rischio nucleare per tutta l’umanità che Dio ama. Questo massimo rischio ingiusto rende ingiusto qualunque altro obiettivo giusto cercato con la guerra.
3. Peccati dei cristiani contro la pace: ne abbiamo! Confessiamoli! Abbiamo peccato anche contro la fraternità tra noi discepoli di Gesù, il bene massimo che Lui ci ha raccomandato. Abbiamo impugnato una dottrina contro l’altra, ogni parte si è fatta padrona esclusiva del Vangelo. E la lotta dottrinale si è fatta troppe volte guerra militare: la pazzia di difendere Gesù a modo nostro, con la spada che Gesù proibì a Pietro (Mt 26,52; Gv 18,11). Abbiamo creduto di poter cantare il Te Deum per vittorie militari crudeli, affermando che così si portava Vangelo e civiltà nel mondo. Dopo la giustificazione della attuale guerra russa da parte del Patriarca di Mosca, scrive A. Melloni:
«Il papa andrà a Kiev, nella passerella blindata dei capi di Stato? Potrebbe e se lo farà commuoverà il mondo. Ma questo non sposterà l’esigenza di un gesto di penitenza con cui le chiese assumano il peso dei mille anni di divisione e dei cento di ecumenismo inconcludente. Una penitenza dei capi delle chiese, senza capi di Stato, a Bari da san Nicola o a Gerusalemme, ai piedi del Calvario, per chiedere il miracolo di vedere nella poca fede e nella poca unità cristiana l’origine di questo orrore»³.
Abbiamo una tradizione che è molto da ripensare alla luce del Vangelo. Leggiamo: «Chi condanna la guerra passa per irreligioso, sfiora l’eresia»⁴. Lo diceva Erasmo, nel Cinquecento, e poi il pensiero che vinse fu quello machiavellico, accettato anche dai cristiani: «Negli anni dell’adagio Dulce bellum inexpertis, la svolta a favore di un cristianesimo bellicista era già nell’aria»⁵. Dopo il 1529, nella Consultatio sulla guerra contro i Turchi, «fu allora che i sostenitori della guerra in nome della religione aggredirono il vecchio maestro [Erasmo] accusandolo di eresia»⁶. «La negazione alla guerra di ogni avallo religioso poteva diventare un’eresia nel momento in cui il papa romano ricorreva all’uso congiunto di armi spirituali e di armi materiali»⁷. Erasmo fu messo all’indice.
Mi scriveva E. Balducci, in una lettera del 21 gennaio 1989: «Erasmo, tra Roma e Lutero, aveva visto giusto: la questione dirimente, che avrebbe portato con sé anche la riforma della Chiesa, era quella della pace. Non è forse oggi la vera questione ecumenica?».
Oggi, nel tempo recente, non mancano profeti di pace e di nonviolenza forte, nella grande chiesa-di-chiese, ma la comunità dei cristiani non pensa forse troppo spesso, come il mondo, che contro la violenza vale solo la violenza? Che contro le armi possiamo opporre solo altre armi? Forse non abbiamo davvero fede nella promessa di vita che non muore quando viene spesa per la giustizia e per i diritti offesi nei poveri. Non occorre morire martiri, basta resistere e seminare esperienze coraggiose e unitarie di resistenza umana e disobbedienza al dominio e all’ingiustizia. Non è giusto ignorare che i movimenti per la pace nonviolenta sono abitati in buona parte da cristiani. Invece bisogna sentirci manchevoli perché i cristiani attivi nella politica istituzionale non ne sbloccano il vincolo che la lega e la chiude nel dogma arcaico, pre-civile, dello stato armato e attrezzato per la guerra. Lo stato, pur democratico, ha le armi come suo sacro simbolo (celebrate nelle feste nazionali!), e i cristiani non riescono (ma almeno se lo propongono?) a immettere nelle istituzioni il valore della pace giusta come primo obiettivo, più della crescita economica duramente diseguale, più dei consumi-spreco. Questo obiettivo non è assolutamente un valore confessionale, ma del tutto laico, universale, planetario: ogni uomo riconosca l’uomo nell’altro, per poter essere lui stesso umano. Questa è la verità essenziale della vita comune, senza la quale l’umanità si autodistrugge. È la guerra il distruttivo disconoscimento dell’altro, distruttivo anche di sé. Con la guerra, tutta l’umanità si smentisce: sia chi attacca, sia chi ha fede nella guerra-anti-guerra come unica vera difesa. Sembra che ci gratifichiamo con sogni fuori dal mondo, contro il “realismo” che non cerca altro, ma intanto quella politica che non guarda a un umanesimo più vero si sbrana al proprio interno, e la politica tanto “concreta” è terra di morte.
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Un’ampia letteratura sul conflitto gestito senza violenza è presente nella cultura nonviolenta. A mia limitata conoscenza, posso indicare questi autori: E. Arielli – G. Scotto, A. Cozzo, D. Weeks – A. Truger G. Scotto, D. Novara, E. Camino – A. Dogliotti, A. Drago – M. Ferré, M. Cannito Hjort, J. Galtung, A. Sen, G. (Nanni) Salio, e questo sito: bit.ly/3wBiLPR.
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R. PanikkaR, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Cultura della pace, Fiesole 1990.
- A. Melloni, Il Papa e le due Europe, in «Repubblica» (23 marzo 2022).
- Erasmo da Rotterdam, Dulce bellum inexpertis, in Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, Einaudi, Torino 1980, pp. 198-199.
- Ibidem.
- Ibidem.
- A. Prosperi, Eresie, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 144-145.
Enrico Peyretti ha pubblicato, sul tema della pace, numerosi articoli, fra i quali ricordiamo:
- Alcuni elementi per una filosofia della pace, Scuola di pace, Città di Boves, Anno accademico 1993-94;
- La politica è pace, prefazione di R. La Valle, Cittadella, Assisi 1998;
- Per perdere la guerra (con annotazioni di R. Solmi, R. La Valle, D. Gallo et al.), Beppe Grande, Torino 1999;
- Dov’è la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere, prefazione di M. Soccio, Il segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (Vr) 2005;
- Esperimenti con la verità. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rm) 2005;
- Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009;
- Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza (con trentanove lettere inedite del filosofo), Claudiana, Torino 2011;
- Il bene della pace. La via della nonviolenza, Collana L’etica e i giorni, Cittadella Editrice, Assisi 2012;
- Ha curato, di autori vari, Al di là del “non uccidere”, Cens, Liscate 1989 (ora Servitium);
- Ha tradotto integralmente: J.-M. Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, prefazione di R. Mancini, Plus, Pisa University Press, Pisa 2004 (con una bibliografia storica delle lotte non-armate e non-violente (successivamente aggiornata)).
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