di Teresa Balduzzi

“La tragedia delle democrazie moderne è che non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia”. Quando Jacques Maritain scriveva queste righe era il 1943, con il mondo sconvolto dalla Seconda Guerra Mondiale. A poco più di una settimana dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, le analogie con quelle pagine buie della storia non solo europea sono così tante da far rabbrividire. Se il binomio autoritarismo-guerra (e di regime autoritario, di fatto, in Russia si tratta) risulta paurosamente familiare, qualche breve considerazione sull’essenza democratica dell’Europa e sui suoi talloni d’Achille non potrebbe essere più attuale.

Il principio di democrazia è senza dubbio un concetto trainante nell’evoluzione e nel superamento dello Stato liberale ottocentesco, nonché valore centrale nel processo di integrazione europea. Tuttavia, occorre osservare che nella sua accezione di democrazia elettorale, cioè forma di governo in cui il potere è esercitato dal popolo tramite elezioni (dirette o indirette), essa non esaurisce il cuore di quel modello di Stato, tipico di molti Paesi europei a partire dal Novecento, il cosiddetto Stato democratico-costituzionale che mette al centro la persona. Mi riferisco al principio di separazione dei poteri e alla tutela dei diritti fondamentali, altri due pilastri fondamentali del substrato comune giuridico e prima ancora valoriale dell’Europa. Substrato questo, vale la pena di accennarlo, che affonda le sue radici nei valori della civiltà cristiana, ebraica, greca e romana, innaffiati dall’Umanesimo, straripati nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese, per dar vita nel XX secolo a un nucleo di diritti inviolabili incentrato sul concetto di dignità umana e riferiti alla persona, non al cittadino. È una conquista storica, forse troppo spesso data per scontata, quella di una Dichiarazione universale dei diritti umani adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 a Parigi (al termine, non a caso, della Seconda Guerra Mondiale).

Fatte queste premesse, risulta facile comprendere perché a proposito di alcune esperienze statali, anche in seno all’Europa, si utilizzi il termine “democrazie illiberali”. La Polonia e l’Ungheria in particolare hanno visto un graduale affievolimento della tutela dei diritti inviolabili della persona, a partire dall’enfasi eccessiva posta sulla “Nazione”: per parafrasare la celebre intuizione di Orwell, in tal modo alcune “persone” (i propri connazionali) finiscono inevitabilmente per essere più “persona”, più “uomo” di altri (gli stranieri). Non solo, anche il principio di separazione dei poteri è messo a dura prova da una concezione populista della democrazia. Con tale espressione si intende una visione della sovranità popolare libera da ogni vincolo, anche quelli, appunto, posti dall’ordinamento costituzionale a tutela dello Stato di diritto: ciò si pone in aperto contrasto con la nostra tradizione democratica, che propone un modello di sovranità popolare esercitabile, come recita l’art. 1, “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Un sintomo inequivocabile di tale deriva illiberale è l’accanimento contro la magistratura e il tentativo di concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo. A causa delle riforme limitanti l’indipendenza della magistratura e le norme in violazione di diritti fondamentali, sono state avviate contro Polonia e Ungheria procedure di infrazione con controllo giurisdizionale della Corte di giustizia dell’Unione; inoltre, contro la sola Polonia la Commissione ha avviato la procedura di controllo politico per i casi di violazione grave dei valori dell’art. 2 TUE (procedura che incontra difficoltà, in quanto la constatazione della violazione è stabilita all’unanimità e la Polonia può contare sull’appoggio dell’Ungheria). Vale la pena ricordare, da ultimo, le due sentenze con le quali, lo scorso febbraio, la CGUE ha respinto i ricorsi presentati da Ungheria e Polonia avverso il regolamento adottato nel dicembre 2020 da Parlamento e Consiglio, tramite il quale si istituiva il meccanismo generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione in caso di violazioni dei principi dello Stato di diritto negli Stati membri. In pratica, sulla base di tale regolamento, in caso di accertata violazione dello Stato di diritto (per esempio per via di minacce all’indipendenza della magistratura) i pagamenti effettuati dal bilancio dell’Unione possono essere interrotti, ridotti, terminati o sospesi. Con l’occasione, la Corte ha avuto modo di ribadire che il rispetto da parte degli Stati membri dei valori comuni sui quali l’Unione si fonda e che definiscono l’identità stessa dell’Unione quale ordinamento giuridico comune a tali Stati (democrazia, libertà, uguaglianza, dignità umana…) costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati a uno Stato membro. E l’Unione si attribuisce il compito (e il potere, nei limiti delle sue attribuzioni) di difendere tali valori.

È stato da più parti suggerito come la pandemia prima, la guerra ora (sino a questo momento) sembra abbiano rafforzato il processo di integrazione europea, avendo l’UE compreso l’importanza di rimanere compatta nelle sfide globali. Se ciò è senza dubbio auspicabile, non si devono però dimenticare le battute di arresto e le contraddizioni che portano alla negazione degli stessi principi fondanti dell’Unione. Dimenticarsene, o fingere di dimenticarsene e girarsi dall’altra parte, può rivelarsi, in questo come in altri casi, fatale.