di Marco Tarallo
Quest’anno il Nobel per l’economia è stato assegnato a David Card, Joushua D. Angrist e Guido W. Imbens, per i loro contributi nell’avanzamento degli studi economici in relazione ai rapporti di causa ed effetto nel mercato del lavoro e sulle correlazioni fra eventi. Se questi ultimi due si sono concentrati a sanare gli aspetti metodologici che permettono agli studi sul campo di trarre conclusioni precise di causa-effetto, il primo, ormai tre decenni fa, ha analizzato gli effetti del salario minimo, dell’immigrazione e dell’educazione sul mercato del lavoro. È solo un’ulteriore testimonianza della possibilità, non certo ancora della realtà, del superamento di quell’orizzonte economico e culturale, per il quale il benessere generale proviene esclusivamente dall’iniziativa privata virtuosa, e lo Stato ha il suo ruolo nel difendere e garantire le libertà fondamentali e facilitare l’azione privata.
Facciamo un passo indietro. Della creazione di questa visione, che si produce in retoriche, linguaggi, atteggiamenti e pratiche di governo, un momento plastico, esemplificativo lo troviamo nella House of commons britannica del 22 novembre 1990, quando la prime minister Thatcher spiegò che tutti avevano beneficiato delle sue riforme, anche se il gap tra ricchi e poveri era aumentato. Stuzzicando la sua opposizione, affermò che «They’d rather have the poor poorer, provided that the rich were less rich». Quello che viene sommariamente definito “neoliberismo” o “ultraliberismo” ha certamente radici più profonde e una dignità culturale di rilievo, ed è in buona parte ancora da comprendere nella sua storicità. Il fatto è che l’affermazione del ministro inglese conteneva un’inconsapevole verità, che oggi può venire alla luce: la forbice della ricchezza ha un valore effettivo e autonomo dal dato della ricchezza stessa, e influisce attivamente negli equilibri di potere delle società democratiche.
È chiaro che le maggiori conoscenze scientifiche e la consapevolezza di gruppi minoritari non significherà l’abbandono di una cultura economica e politica, la quale dalla concatenazione di crisi di diversa origine pare avere esaurito qualunque capacità risolutiva, anche se in Italia si è potuto dubitare della sua effettiva realtà.
È vero però che, con i vuoti creati dalle bolle speculative, le bancarotte concatenate e le conseguenti parziali delegittimazioni del mercato tradizionale, si fanno avanti dei modi integrati di vivere la vita economica, di modo che siano largamente intesi a rispetto e sostegno di comunità e valori etici e sociali.
In Italia le culture cattolica e socialista fanno apertamente rete, nell’ispirazione culturale e nelle applicazioni territoriali, per vivificare questo campo in espansione. Attorno a intellettuali come Stefano Zamagni, Luigi Bruni, Fabrizio Barca nel tempo si sono radunate iniziative di sensibilizzazione e di ormai vera e propria applicazione di forme di economia capitalista guidate cooperativamente o comunque socialmente. Da una parte Barca ha saputo coagulare risorse e sforzi provenienti dalla società civile nel Forum disuguaglianze e diversità, che con documenti, studi, attività culturali e presenze sul territorio promuovono conoscenze e pratiche per la soluzione delle questioni critiche del paese, dalla povertà all’educazione, alla ricerca, al lavoro, fino al sostegno da basso alla rappresentanza politica con la campagna #FacciamoEleggere. Inoltre ha attivato un Osservatorio sul piano nazionale di ripresa e resilienza che analizza il Piano, monitora la sua applicazione, propone correzioni e aggiunte nelle diverse fasi del Piano per una realizzazione maggiormente in linea con i bisogni di giustizia sociale e razionalità amministrativa.
Dal cattolicesimo sociale provengono suggestioni e operazioni similari. La dottrina sociale, alla luce della situazione nel paese, pare aver reagito incontrando e promuovendo, con la propria declinazione morale e spirituale, proposte come il reddito di cittadinanza e il salario minimo, cui precedentemente si era dimostrata scettica proprio in conseguenza della propria visione morale del lavoro.
Ora, invece, gli studi sul campo sfatano critiche e rischi possibili su produttività, costi e rapporti economici, laddove l’emergenza sociale è divenuta ancora più pressante, e il Magistero sembra aver dato una svolta al proprio messaggio pubblico.
Questo contesto, dove culture laiche e cattoliche, come già detto, operano seguendo la propria ispirazione e le proprie matrici culturali, non su linee di divisione anzi con il dialogo e la collaborazione stretta a progetti comuni, consente la sfida all’egemonia culturale di orizzonti economici e ideologici, i quali presentano come inevitabili squilibri e compressioni, e che distolgono da un reale sviluppo dell’economia fatto di investimenti tecnologici e strutturali, a favore di una tradizionale politica dei bassi costi, quindi delle rendite di posizione e di perdita di competitività in chiave globale.
Non solo questo. Questo contesto che pare aprirsi, almeno in parte, alla possibilità di spazi nuovi, dà anche propulsione a tentativi concreti, in parte nuovi in parte precedenti, di strutturare delle reti di capitalismo “etico”, di attività produttive che, per statuto o decisione manageriale, inseriscono il profitto tra una quantità di valori differenti, tutti volti a costruire benessere diffuso sia materiale, sia immateriale tra tutti i lavoratori, dentro e fuori l’attività economica, sul territorio, e a valorizzare potenzialità altrimenti inespresse o, peggio, ritenute disvalori economici.
Una accezione nuova e più larga di valore e benessere economico dunque. È una delle tesi fondamentali del pamphlet di Marco Asselle e Andrea Piccaluga, Sorella economia (edito per le Edizioni Porziuncola nel 2019).
Nel tentativo di spiegare cosa sia la nuova economia tentata e incarnata dalla galassia sviluppatasi attorno a The Economy of Francesco, una delle proposte più note dell’attuale Magistero pontificio, il libretto si dedica a dimostrare la continua dialettica tra dottrina cattolica, cultura francescana e operazioni credibili di capitalismo alternativo.
Quello che a noi qui interessa è quest’ultimo elemento. I due autori, il primo frate minore e dottore in scienze sociali, il secondo professore di Management dell’Innovazione alla Scuola Superiore Sant’Anna, dimostrano con una riflessione su di una notevole quantità di esempi le possibilità concrete di riforma economica strutturale, fondate sulla dimostrazione da parte della società di una creatività sorprendente di forme e letture delle attività produttive.
Si espongono i casi di aziende capaci di creare indotti milionari, con prodotti per casa e abbigliamento di qualità da scarti di tessuto di altre aziende a prezzi competitivi, puntando sull’interazione tra mondo profit e mondo non profit, procurando risparmio alle altre aziende sullo smaltimento dei rifiuti e accogliendo lavoratori provenienti da situazioni di fragilità e sfruttamento. Viene così dimostrato che se opportunamente accolti, seguiti e guidati, anche i più deboli possono svolgere attività produttive e stare sul mercato, e valorizzano risorse materiali trascurate e risorse umane inoperose, per mancanza di lavoro in assoluto o per mancanza di lavori inidonei per quel tipo di persone e situazioni. Una catena virtuosa del valore che include il benessere e la valorizzazione di capitale altrimenti inservibile.
Anche coloro non in grado di lavorare, come anziani, malati e disabili sono portatori preziosi di capacità trasferibili, come avviene a opera della Fondazione Casa Cardinale Maffi la quale, realizzando l’incontro tra fragili e sani, permette a questi ultimi l’acquisizione di soft skill come la gestione del tempo, l’importanza dei dettagli, la capacità di rapporto personale. Nel superamento di dicotomie obbligate, si apre l’accesso a know how influenti nella vita lavorativa.
Anche in grandi aziende vi sono realtà di rapporti di lavoro creative, capaci di trovare soluzioni a problemi di contesto nell’interesse sia per gli introiti, sia per i lavoratori. I contratti di “part-time incentivato” attivati da Luxottica sono un nuovo modello di organizzazione degli orari di lavoro e di gestione della flessibilità produttiva, che prevede l’inserimento di lavoratori con contratti a otto ore nei mesi di maggiore attività, e a sei ore nel rimanente periodo. Il nuovo modello nasce per bilanciare in modo sostenibile e strutturale l’esigenza di flessibilità nella gestione dei flussi produttivi in un mercato ad alta stagionalità, con il naturale bisogno di stabilità e sicurezza dei dipendenti e delle loro famiglie, minimizzando il ricorso al lavoro precario, somministrato o straordinario. Ogni dipendente potrà ridurre volontariamente il proprio orario di lavoro pur mantenendo lo stesso livello di stipendio e potrà contrare su un pacchetto aggiuntivo annuale di 30 ore di formazione professionale. Un accordo tra azienda e sindacati nel segno della flessibilità sostenibile, che permette la stabilizzazione di molti giovani stagionali e consentendo un miglior bilanciamento del rapporto vita-lavoro.
Altre aziende ancora promuovono la fondazione di vere e proprie comunità di benessere attorno ai propri stabilimenti. Leroy Merlin, Aboca, Faac di proprietà dell’Arcidiocesi di Bologna, Loccioni nelle Marche curano una rete di rapporti tra azienda, lavoratori e cittadini all’insegna dell’inclusività dei più bisognosi, attraverso finanziamenti, progetti di edilizia e servizi, operazioni di incontro tra clienti, dimostrando così attenzione alla produzione sostenibile e alla rigenerazione dei terreni dove risiedono e dei patrimoni dei territori di riferimento. Non si tratta più soltanto di modeste iniziative cooperative, ma di imprese fatturanti decine di milioni di euro.
Vi sono poi vere e proprie invenzioni, che inventano valore in contesti difficili o reti prima inesistenti. Il Progetto Policoro, promosso dalla Cei in 13 regioni, aiuta giovani del Sud Italia a migliorare la propria condizione lavorativa tramite la formazione e la fondazione di cooperative o piccole imprese, in un’ottica di solidarietà e legalità. Si parla, finora, di 500 esperienze lavorative con 4000 posti di lavoro. Un lavoro connotato, libero, creativo, partecipativo e solidale. Al centro del progetto vi sono gli animatori di comunità, che hanno il compito di collegare i diversi uffici delle proprie diocesi con i giovani e le associazioni di volontariato, le organizzazioni formative e le istituzioni pubbliche e private che operano sul territorio.
Economia di comunione, visione nata da Chiara Lubich nel 1991, è un modello di economia innovativo, adottato da imprenditori che non si appropriano degli utili ma li destinano ad alimentare una rete di legami economici e sociali ormai diffusa in tutto il mondo. Similarmente le Società benefit, avviate in Italia grazie alla legge di stabilità del 2016, perseguono una duplice finalità: distribuire utili e perseguire uno o più obiettivi “di beneficio” a vantaggio dell’ambiente e di specifiche persone, associazioni, ecc., configurandosi quasi come una figura terza tra profit e non profit. Ne deriva un’utilità non di natura fiscale, ma unicamente reputazionale. Si tratta quindi di una fattispecie di sicuro interesse che però deve garantire requisiti molto precisi e stringenti, e che include società di qualità come la farmaceutica Chiesi e la Fratelli Carli (olio).
Infine anche in ambito finanziario le possibilità non diminuiscono. L’esempio è di Banca Etica, che finanzia con il risparmio che raccoglie iniziative culturali, di tutela ambientale, di cooperazione sociale e internazionale. È inoltre una banca cooperativa, dove la gestione democratica è assicurata dalla libera partecipazione dei soci, ciascuno dei quali dispone del proprio voto. Si conclude con la presentazione dello strumento dell’impact investment, l’investimento a impatto sociale che si pone come finalità l’equilibrio tra beneficio sociale, rendimento e rischio. La credibilità di questo strumento può essere anche superiore rispetto a quelli usuali, perché i capitali in gioco sono disposti a un rendimento di medio periodo, che a un tasso inferiore a quello di mercato presenta il vantaggio di una scarsa volatilità, perché gli investimenti riguardano soprattutto settori nevralgici incomprimibili, e perciò meno soggetti ai rischi.
Fragilità trasformate in performance economiche, filiere produttive incarnate in inclusione e cura territoriale, reti economiche che non si appropriano ma lasciano circolare gli utili, finanza che affianca al ritorno degli investimenti strumenti con obiettivi sociali misurabili. Si tratta di paradigmi economici solidi, applicabili a più livelli alle diverse realtà di un paese come il nostro dove convivono la grande multinazionale globale alle pmi più o meno interconnese tra loro.
La Costituzione e la storia del paese giustificano veri e propri mutamenti istituzionali in ambito economico, laddove il corpo produttivo nazionale ha saputo diversificarsi profondamente e più volte nel corso di due secoli, nonostante la permanenza di caratteristiche costanti nelle classi superiori.
Sono due i presupposti per questo obiettivo, a sua volta finalizzato a un regime economico più giusto
e democratico: una volontà politica coerente ed efficace, sostenuta da almeno segmenti della società civile pronta a seguirla e a dialogarvi perché culturalmente convinta e attrezzata, giacché il fronte politico ed economico strutturale al regime vigente non è affatto in crisi; esso gode ancora sia della propria primazia sul senso comune (valore sacrale della proprietà privata, diffidenza verso forme di moralità pubbliche, senso dello stato minimale ed esteriore, avversione per la redistribuzione della ricchezza immobilizzata, ecc.), sia del consenso di quella alleanza sociale di potere tra l’esigua minoranza detentrice della maggioranza della proprietà e della rendita – presenza comune a tutti i paesi – e quella fascia di cittadini che non detiene un grande potere economico, ma che è sentimentalmente legata al modello e alle ambizioni della prima. Non si è tuttavia potuto evitare l’aprirsi di spazi di opportunità causati dalla concatenazione di crisi di diversa origine e da “invenzioni” politiche inaspettate.
Secondo presupposto operativo è un’opera di riforma efficace delle norme di diritto societario, aziendale, del lavoro, perché le forme di capitalismo suddette non siano delle nobili testimonianze tra parentesi, ma l’economia italiana sia strutturalmente informata a una visione larga di benessere, a una concezione dell’attività economica e dei rapporti che sprigiona non più soltanto individuali ma solidali, e metta infine l’accezione del cittadino come lavoratore al centro della gestione, della produzione e della conduzione dell’attività lavorativa, secondo ruoli e competenze.
Solo se il diritto, che costituisce le “regole del gioco” cui fare riferimento anche al mutare dei tempi e delle condizioni, descriverà un’economia democratica e perciò solidale e universalmente inclusiva, qualsiasi conquista civile potrà essere mantenuta, e qualunque momento regressivo potrà essere realisticamente contenuto.
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