Cristina Simonelli *

L’espressione da cantiere aperto si addice anche al tema in questione e cioè alla domanda attorno al significato, all’ampiezza e alle prospettive di un rapporto fra donne e teologia. Si deve dire subito che entrambi i termini hanno bisogno di una mappatura almeno indicativa: questo vale in parte per “teologia” ma ancora di più per “donne”.  E non solo perché in una prospettiva che tenga in debito conto il modo culturalmente e socialmente connotato con cui siamo persone  – e che potremmo indicare attorno all’idea di genere – non si può semplicemente assumere l’idea come evidente, in un quadro statico in cui appaia scontato cosa è essere donna o uomo. Ancora più semplicemente, non si può pensare né di recensire né tanto meno di rappresentare una galassia legittimamente variegata e dagli esiti disparati. Potrebbe sembrare una via utile quella di raccogliere la domanda attorno all’idea di femminile, ma questo termine nasconde forse un’insidia ancora maggiore perché occulta le differenze in un denominatore comune cui, specie nell’area di lingua italiana, si associa un che di sentimentale e evanescente che non mi sentirei di sottoscrivere. Diverso sarebbe il caso di “femminista”, in quanto pur nella sua accezione diversificata mantiene almeno l’idea di interpretativo e trasformativo, cioè di assunzione di una parzialità per guardare il mondo ma anche per indicare pratiche di giustizia coerenti. Senonché… il termine in area italiana gode tale cattiva fama e genera tale sospetto di “sorpassato” tra le generazioni più giovani, da consigliarne un uso molto limitato e comunque sempre accompagnato da un quadro interpretativo.

* Presidente Coordinamento Teologhe Italiane